La tempesta perfetta, ovvero…..l’insensibilità e cinismo del contabile!

di Francesco Naviglio [1]

Dopo una apparente calma dei mercati internazionali, durata pochi mesi, all’improvviso si è scatenata una nuova tempesta le cui cause e finalità mi sono oscure ma certamente penso siano dettate dalla speculazione di grossi gruppi internazionali che guidano le sorti dell’economia e della politica mondiale.

Tutto è successo all’improvviso a fine maggio e nel giro di pochi giorni si sono riuniti i massimi vertici, politici ed economici, dei paesi europei che hanno immediatamente preso drastiche misure, sembra, per contenere i disavanzi dei paesi europei e avviare il risanamento dei loro conti pubblici. Continua a leggere

Attualità di oltre tre millenni fa!

Pensate che quanto detto oltre due millenni orsono possa essere attuale?

Pericle – Discorso agli Ateniesi, 461 a.C.

Qui ad Atene noi facciamo così.

Qui il nostro governo favorisce i molti invece dei pochi: e per questo viene chiamato democrazia.

Qui ad Atene noi facciamo così. Continua a leggere

La ricerca di Aifos sulla sicurezza del lavoro

Il 1° dicembre 2009 è stato presentato alla Sala delle Colonne di Palazzo Marini a Roma il “Primo rapporto AIFOS sullo stato della formazione sulla sicurezza in Italia” di cui sono coautore.

Con questo lavoro abbiamo voluto dare la parola ai lavoratori sentendo direttamente da loro cosa pensano della formazione sulla sicurezza e se sono soddisfatti di come viene gestita la sicurezza in azienda.

1.000 questionari con oltre 80 domande è un campione ampiamente rappresentativo e i risultati non potranno non essere al centro del dibattito sulla sicurezza del lavoro in Italia.

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Sulla sicurezza negli ambienti di vita e lavoro Sulla sicurezza negli ambienti di vita e lavoro

 

I miei video preferiti

Le “HAKA” Maori

Nel suo libro “Maori Games and Haka”, lo studioso Alan Armstrong descrive la Haka così:

“La Haka è una composizione suonata con molti strumenti. Mani, piedi, gambe, corpo, voce, lingua, occhi… tutti giocano la loro parte nel portare insieme a compimento la sfida, il benvenuto, l’esultanza, o il disprezzo contenute nelle parole. È disciplinata, eppure emozionale. Più di ogni altro aspetto della cultura Maori, questa complessa danza è l’espressione della passione, del vigore e dell’identità della razza. È, al suo meglio, un messaggio dell’anima espresso attraverso le parole e gli atteggiamenti.”

È dunque una danza che esprime il sentimento interiore di chi la esegue, e può avere molteplici significati. Non si tratta, infatti, solo di una danza di guerra o intimidatoria, come è spesso erroneamente considerata, ma può voler anche essere una manifestazione di gioia, di dolore, una via di espressione libera che lascia a chi la esegue momenti di libertà nei movimenti.

È comunque un rituale che cerca di impressionare, come si può ben vedere dall’esibizione degli All Blacks: si roteano e si spalancano gli occhi, si digrignano i denti, si mostra la lingua, ci si batte violentemente il petto e gli avambracci, si dà quindi un saggio di potenza e coraggio, che si ricollega allo spirito guerriero dei Maori.

Può forse servirci per ridarci una “dosata” aggressività nella società?

Accordo Provincia di Roma, Inail Regione Lazio e Aifos

Lo scorso 16 dicembre è stato sottoscritto a Roma, nel corso di una conferenza stampa di presentazione, l’accordo per la realizzazione del progetto Scuola Sicura che prevede lo sviluppo nel biennio delle attività formative nelle scuole della provincia di Roma.

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Lettera a Pietro Ichino

Castegnato, lì 11 agosto 2008                                                       

 Prof. Pietro Ichino

Corriere della Sera

Ho letto con estremo interesse  il suo articolo dello scorso 9 agosto sul Corriere della Sera nel quale è tornato sull’argomento dell’efficienza della P.A. affrontandolo, a mio parere, in modo costruttivo e propositivo.

Costruttivo in quanto, superato il suo stupore iniziale di un anno fa determinato dal numero dei dipendenti pubblici favorevoli alle sue tesi, sostiene che la cura Brunetta, a cui ho inviato una nota alcuni giorni fa, debba dare una prospettiva immediata e concreta “facendo un’alleanza con la parte migliore dei  dipendenti pubblici, con quelli che oggi tengono in piedi la baracca “. Continua a leggere

La SSPA di Caserta

Nel 1991, dopo lunghe e complesse esperienze e trattative, sono riuscito a vincere il corso-concorso per essere ammesso alla Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione a Caserta.

12 mesi di corso, 8 ore al giorno di aula, tre mesi di stage presso la STET, la realizzazione di una tesi e un esame finale composto da tre prove scritte, e un colloquio in cui esporre i conteuti della tesi oltre ad essere valutato da una commissione di 5 esperti, dirigenti pubblici e privati.

Sono le cifre di cosa è significato per me e molti altri dirigenti pubblici frequentare la scuola prima di essere nominati dirigenti. Tutto questo dopo due corsi di laurea, 18 anni di servizio, due concorsi pubblici superati, oltre 15 anni di guida di strutture organizzative con gestione di budget e risorse umane.

Tutto bene se fosse servito ad acquisire visibilità e meriti nei successivi percorsi di carriera. Niente di tutto ciò, anzi a volte la frequenza della scuola è stata vista addirittura come un ostacolo, quasi una perdita di tempo. La scuola stessa non ha ritenuto utile nè necessario valorizzare i suoi allievi e instaurare con loro un legame nel tempo fatto di aggiornamenti e sinergie.

Nei percorsi di carriera i dirigenti usciti dalla SSPA, a differenza di altre pubbliche amministrazioni estere, sono stati valutati senza alcun punto aggiuntivo e spesso hanno visto assegnare posizioni organizzative di rilievo a “illustri” sconosciuti i cui titoli erano costituiti da “appartenenze” di vario tipo.

Tutto ciò potrebbe andare bene ed essere naturale se uno dei dibattiti che oggi vanno per la maggiore non sia costituito dalla ricerca di “meritocrazia” nella società italiana ed in particolare nel mondo della pubblica amministrazione.

La tesi discussa a Caserta nel 1992 tratta questi argomenti che, purtroppo, ad oggi sono in gran parte rimasti irrisolti.

 

 

La Tesi della SSPA di Caserta

PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI

SCUOLA SUPERIORE DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE

CASERTA

SECONDO CORSO-CONCORSO DI FORMAZIONE DIRIGENZIALE PER FUNZIONARI DI ENTI PUBBLICI NON ECONOMICI

ANNO ACCADEMICO 1991-92

 

A customer is the most important

visitor on our premises

he is not dependent on us

we are dependent on him

he is not an interruption of our work

he his the purpose of it

he is not an outsider on our business

he is a part of it

we are not doing him a favour

by serving him

he is doing us a favour

by giving us an opportunity to do so

GANDHI

FRANCESCO NAVIGLIO

LA SELEZIONE E FORMAZIONE DEI DIRIGENTI

PUBBLICA AMMINISTRAZIONE E STET

DUE FILOSOFIE A CONFRONTO

 

INDICE

PREMESSA

1.0 – INTRODUZIONE

2.0 – GRUPPO STET E PUBBLICA AMMINISTRAZIONE:

DUE SISTEMI A CONFRONTO

2.1 – La teoria dei sistemi

2.2 – Il sistema STET

2.3 – Il sistema Pubblica Amministrazione

2.4 – I due sistemi a confronto

3.0 – STRATEGIE A CONFRONTO IN TEMA DI DIRIGENZA

3.1 – Chi sono i dirigenti

3.2 – Il ruolo dei dirigenti

a) La dirigenza STET

b) La dirigenza pubblica

3.3 – I percorsi di carriera

a) La STET

b) La Pubblica Amministrazione

4.0 – LA SELEZIONE E FORMAZIONE DELLA DIRIGENZA

4.1 – Presupposti e finalità

4.2 – Selezione e formazione in STET

4.3 – Selezione e formazione nella P.A.

5.0 – CONCLUSIONI

5.1 – Le due metodologie a confronto

5.2 – Proposte conclusive

BIBLIOGRAFIA

HOMEPAGE

 

PREMESSA

 

All’inizio del corso di formazione dirigenziale presso la Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione attribuivo grande importanza allo stage che avrei dovuto sostenere presso una grande azienda al fine di comparare alcuni aspetti organizzativi della stessa con quelli in uso presso la Pubblica Amministrazione.

A tale scopo ho cercato di individuare una realtà produttiva di notevole prestigio che ricoprisse nello scenario economico italiano una posizione di rilievo tale che l’analisi della propria struttura organizzativa potesse fornire, nello studio comparativo che mi accingevo a compiere, spunti metodologici e gestionali concreti ed esportabili nel contesto pubblico.

Ritengo che la scelta fatta si sia rivelata di grande utilità e funzionale agli obiettivi dello stage in quanto, oltre ad allargare il mio orizzonte culturale, ha permesso una concreta comparazione di due filosofie gestionali inerenti la dirigenza le cui conclusioni propositive, con opportune ed ulteriori riflessioni, potranno concorrere ad un miglioramento della efficacia ed efficienza della Pubblica Amministrazione italiana.

Il periodo di applicazione trascorso presso la Stet mi ha, altresì, permesso di apprezzare la squisita disponibilità dimostrata dai dirigenti che mi hanno “guidato” nello studio e nell’analisi delle realtà organizzative e gestionali del Gruppo.

In particolare ritengo doveroso ringraziare per la collaborazione ottenuta il Dott. Manlio Meli, Responsabile della Formazione Gruppo Stet, il Dott. Fulvio Luceri, Responsabile Sviluppo e Organizzazione Gruppo Stet e il Dott. Mario G. Iurlano, Progettazione Iniziative Formative e Attività Internazionali Gruppo Stet.

 

GIUGNO 1992

FRANCESCO NAVIGLIO

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1.0 – INTRODUZIONE

La decisione di scegliere la STET quale azienda presso cui svolgere il periodo di applicazione previsto dalla legge 10 luglio 1984, n. 301 ad integrazione del corso-concorso presso la Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione è maturata dopo aver riflettuto a lungo sul significato del 7° comma dell’art. 3 della citata legge.

Nel prevedere, appunto, un periodo di applicazione di tre mesi presso “grandi imprese pubbliche e private per compiervi studi comparativi” indica anche le finalità che questi studi devono perseguire: “ponendo in risalto l’esame comparato tra sistema pubblico e privato e relative conduzioni gestionali, e avanzando osservazioni e proposte in ordine alla migliore organizzazione dei servizi della pubblica amministrazione ed al miglioramento dell’azione amministrativa al servizio dei cittadini”.

Le poche righe appena riportate costituiscono il tema centrale del dibattito politico e sociale degli ultimi anni vista la situazione in cui versa la Pubblica Amministrazione italiana accusata, da varie parti, di non essere più adeguata ad uno Stato che aspiri a sedere tra i rappresentanti dei maggiori paesi industrializzati del mondo e a rimanere tra le nazioni guida della Comunità Europea.

Alla luce di ciò si è ritenuto opportuno affrontare queste tematiche partendo dalla ipotesi, suffragata da diversi studi condotti in questo campo, che la pubblica amministrazione possa essere analizzata prendendo come schema di riferimento la “teoria sistemica” e, quindi, considerando la stessa come un insieme di elementi che, avendo un fine comune, si trovano continuamente in relazione tra di loro.

In questa ottica si è proceduto ad un confronto tra il “sistema” Pubblica Amministrazione e il “sistema” Stet cercando di porre in luce, pur nella loro diversità, alcuni elementi che considerati nell’ambito della teoria dei sistemi possano risultare utili nell’analisi di alcune disfunzioni attualmente esistenti nell’ambito della Pubblica Amministrazione.

Partendo da queste considerazioni si è ritenuto opportuno approfondire il tema della selezione e formazione dei dirigenti ponendo a confronto le filosofie adottate nell’ambito della pubblica amministrazione e della STET che, pur se gruppo finanziario condotto con metodologie privatistiche, può essere considerato in qualche modo parte della sfera pubblica e, come tale, condizionato da una serie di normative e controlli da parte dello Stato.

Tale scelta è stata dettata dalla convinzione che la ricerca di nuovi modelli organizzativi e gestionali nella pubblica amministrazione non possono prescindere da un nuovo modo di considerare la gestione delle risorse umane, cosa che nell’ambito delle grandi imprese private e pubbliche è già avvenuto da almeno un decennio.

In tali aziende lo stimolo a mettere in discussione i modelli di management in tema di gestione delle risorse umane è stato determinato dalla necessità di recuperare una progressiva perdita di competività in campo internazionale. Una serie di studi condotti da studiosi a livello internazionale aveva posto in luce come uno dei principali punti di differenza tra imprese dotate di alta competività (come ad esempio quelle giapponesi) ed imprese in crisi a livello internazionale (quelle americane) era rappresentato proprio dalla gestione delle risorse umane.

Alcuni studiosi della Harward Business School (M. Beer, B. Spector, P. Lawrence, D. Quinn Mills, R.E. Walton) hanno posto in luce come “è giunto il tempo di ripensare alle politiche e pratiche tradizionali di relazioni con il personale” e che “le pratiche del personale del passato sono un ostacolo oggi; bloccano una più alta produttività e i livelli di qualità che le imprese dovranno conseguire per essere competitive nei prossimi anni. Mentre le imprese hanno raggiunto alti livelli di sofisticazione nella gestione delle risorse finanziarie e produttive, una risorsa critica, quella umana, è stata seriamente sottoutilizzata nelle imprese” ( M. Beer ed altri, 1984).

Se quanto esposto è vero per il settore privato ove già da tempo la struttura organizzativa teneva in un certo conto il “fattore umano” come risorsa produttiva, il nuovo approccio delineato dai ricercatori inglesi pone molti interrogativi alla pubblica amministrazione italiana che, in una fase di ripensamento della propria struttura organizzativa, dovrà necessariamente far tesoro delle esperienze del settore privato e, finalmente, avere maggior riguardo della gestione delle risorse umane le quali non possono essere amministrate unicamente per “decreto” e dalle quali non si può ottenere una maggiore produttività solo inserendo nei contratti di lavoro “incentivazioni” che, per lo più, rimangono unicamente enunciazioni di principio.

Elemento centrale dell’analisi dei ricercatori della Harward Businnes School è il manager cui è demandato il compito di motivare, gestire e incentivare le risorse umane ed ottenere da loro la massima collaborazione per il raggiungimento degli obiettivi strategici delle imprese.

Accettando questi principi appare evidente che se si vuole riorganizzare la pubblica amministrazione italiana in termini di efficienza ed efficacia, non disgiunti da una doverosa economicità, la figura del dirigente diviene centrale e fondamentali appaiono le strategie con le quali si dovranno selezionare e formare coloro che saranno chiamati a gestire i nuovi modelli organizzativi e produttivi nell’ambito della amministrazione pubblica.

La scelta del tema della presente relazione deriva dalle considerazioni fin quì esposte che hanno indotto ad attuare una comparazione tra i sistemi di selezione e formazione posti in atto da un grande gruppo finanziario a capitale pubblico ma operante con sistemi privatistici e la pubblica amministrazione.

La STET, come si vedrà in seguito, è la società capofila di un gruppo che, con i dovuti accorgimenti, può essere paragonato alla Pubblica Amministrazione, non in termini di mere finalità bensì dal punto di vista di un sistema con alta coesione interna e, contemporaneamente, caratterizzato da una relativa autonomia di cui godono, nel raggiungimento dei loro obiettivi, le società controllate.

Pur se ciascuna azienda possiede propri organi decisionali, proprie strutture e competenze specifiche, esiste all’interno del gruppo un sistema di pianificazione strategica che dà luogo ad un programma pluriennale elaborato dalla STET a cui tutte le altre società necessariamente debbono uniformarsi.

Il parallelismo con la pubblica amministrazione si può scorgere anche nella metodologia con cui viene gestita la problematica relativa alla dirigenza.

Come si evidenzierà in seguito, le singole società del gruppo, nell’ambito di direttive generali, operano direttamente e autonomamente la selezione e formazione del personale, di basso o medio livello, mediante proprie strutture didattiche o utilizzando la Scuola Superiore G. Reiss Romoli dell’Aquila che, per il gruppo STET, svolge funzioni simili alla Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione di Caserta nell’ambito della pubblica amministrazione.

Quando, invece, si interviene nella formazione di personale destinato ad assumere posizioni di livello elevato (Capo Servizio e/o Direttore Centrale) la strategia viene studiata ed attuata direttamente dalla Stet in modo uniforme per tutte le società del gruppo.

Anche se una simile comparazione può apparire azzardata, si è ritenuto interessante analizzare le metodologie e gli obiettivi che, in ambito Stet, guidano la scelta dei futuri dirigenti e la definizione dei percorsi formativi che gli stessi dovranno intraprendere, in quanto tutto il sistema della selezione e formazione dei dirigenti è finalizzato al raggiungimento degli obiettivi che il Gruppo Stet, in sede di programmazione strategica, decide di perseguire.

Come si vedrà nelle conclusioni, pur tenendo presente le proprie specificità, il modello di selezione e formazione attuato dalla Stet nei confronti della dirigenza può, con opportuni adattamenti, essere adottato anche all’interno della pubblica amministrazione una volta che, apportate le necessarie modifiche legislative, si potrà contare su modelli organizzativi e gestionali tesi alla ricerca di soglie sempre più alte di efficacia, efficienza, ed economicità.

Preme sottolineare, per ultimo, che il tema trattato e l’analisi comparativa effettuata in questo studio, proprio per le loro caratteristiche di generalità e per l’adozione di uno schema di riferimento che si rifà alla “Teoria dei sistemi”, non ha consentito di confrontare la realtà dell’azienda presso cui si è effettuato lo stage con l’ente di provenienza dello scrivente essendo lo stesso parte del più generale “sistema” Pubblica Amministrazione.

Naturalmente le tesi che saranno prospettate in questo studio, e le relative conclusioni propositive, nel caso venissero considerate di una certa utilità e funzionali ad una “migliore organizzazione dei servizi della Pubblica Amministrazione ed al miglioramento dell’azione amministrativa al servizio dei cittadini” potranno anche contribuire al miglioramento organizzativo e gestionale dell’ENASARCO.

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2.0 – GRUPPO STET E PUBBLICA AMMINISTRAZIONE: DUE SISTEMI A CONFRONTO

2.1 – La Teoria dei Sistemi

Prima di analizzare il gruppo Stet e la Pubblica Amministrazione si ritiene utile ricordare alcuni principi che sono alla base della teoria dei sistemi, prendendo come spunto alcune considerazioni formulate dal Prof. D. Macri in una pubblicazione redatta per la Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione e intitolata “L’amministrazione come sistema”.

In primo luogo si deve sottolineare che la teoria dei sistemi è nata dall’analisi delle realtà sociali per le quali risulta estremamente difficile fare delle previsioni attendibili sui comportamenti futuri utilizzando le conoscenze scientifiche in uso.

Nel contesto delle scienze sociali, a differenza delle scienze fisiche, meccaniche e chimiche, ci si imbatte in realtà in cui i fattori da analizzare sono numerosi ed assumono valori e comportamenti differenti in relazione al modo con cui interagiscono tra di loro.

Per Von Bertanlanfyy un sistema è “un complesso di elementi interagenti” precisando che “interazione significa che gli elementi “p” sono connessi da relazioni “R” in modo tale che il comportamento di un elemento “p” in “R” è differente da quello che sarebbe il suo comportamento rispetto ad un’altra relazione “R+N”.

A. Rossi, nel suo libro “Principi della teoria dei sistemi”, pubblicato nel 1979 dal CNR, definisce un sistema come “un insieme organizzato, cioè capace di svolgere delle attività coerenti e concorrenti ad un fine comune ed è fatto di uomini e strumenti (macchine, procedure, modelli di processi)”.

Dalle citazioni riportate si deduce che i sistemi possiedono diverse caratteristiche in comune, come:

– l’obiettivo (stato finale cui il sistema tende)

– le risorse

– l’insieme dei rapporti e dei legami (la struttura) ( vedi fig.1)

Si deduce altresì che analizzando due o più sistemi, caratterizzati da un egual numero di fattori aventi lo stesso valore, è possibile riscontrare in essi notevoli diversità determinate dal tipo di relazioni che interagiscono tra i fattori.

Il Macri, nella pubblicazione citata, suddivide i sistemi in “aperti” e “chiusi”.

Per “chiusi” individua quei sistemi “che non hanno rapporti con l’ambiente esterno ed in cui l’andamento delle reazioni e lo stato del sistema dipendono esclusivamente dai fattori interni e dalle loro interrelazioni. In base al secondo principio della termodinamica, tendono al massimo del disordine (entropia) e sono diretti verso stati di eliminazione e appiattimento delle differenze.”

Per “aperti” il Macri considera quei sistemi che “mantengono frequenti e continui contatti con l’ambiente esterno e finiscono per acquisire la funzione di strumenti di trasformazione in quanto percepiscono e ricevono dall’esterno stimoli e producono delle risposte. Essi tendono verso l’ordine in quanto una idonea strutturazione interna è l’unico mezzo per resistere alle sollecitazioni esterne.”

I sistemi aperti si caratterizzano per due elementi assenti nei sistemi chiusi: il “controllo” ed i “vincoli”.

Attraverso la “funzione di controllo” il sistema gestisce il governo di se stesso: è un elemento di “stabilità” che permette al sistema di raggiungere gli obiettivi prefissati anche in presenza di “perturbazioni” sia esterne che interne. Permette, inoltre, un “adattamento” del funzionamento e della struttura del sistema mettendolo in condizione di funzionare anche in presenza di elementi di disturbo particolari e non previsti dall’iniziale configurazione del sistema.

I tipi di risposta che un sistema è abilitato a dare e la sua configurazione sono, per il Macri, i “vincoli” dello stesso. Sono, in pratica, gli ambiti entro cui il sistema agisce correttamente e al di fuori dei quali lo stesso entrerebbe in crisi.

Per terminare questa rapida carrellata sulla teoria dei sistemi è utile sottolineare alcuni principi particolarmente utili per l’analisi oggetto di questo lavoro.

Sempre seguendo il ragionamento svolto dal Macri, un primo principio consiste nella capacità di ogni sistema di scomporsi in sotto-sistemi caratterizzati, ognuno, da un proprio obiettivo, da un insieme di risorse e da una struttura.

Un secondo principio è quello della interconnessione tra le diverse parti di un sistema tale che ciascun elemento, nel suo funzionamento, risente del tipo di relazione cui è legato all’intero sistema. Mutando la relazione e le condizioni generali del sistema, muta il tipo di risposta e di operatività dell’elemento considerato.

Un terzo principio è quello dell’esistenza, in ciascun sistema, di una pluralità di obiettivi che determinano la necessità di una scelta delle priorità.

E’ interessante notare che in un sistema aperto uno degli obiettivi primari è la propria sopravvivenza: ciò determina la circostanza che il sistema tende a modificare i propri fini, se ritenuti fondatamente superati, pur di assicurare la propria integrità ed il proprio funzionamento.

Un quarto principio, già ricordato in precedenza, riguarda l’esistenza, per i sistemi aperti, di una serie di interrelazioni con l’ambiente esterno.

Ciò comporta che un sistema aperto, inserito in un contesto ambientale caratterizzato da una forte dinamicità, non deve necessariamente essere dotato di una struttura rigida e da vincoli aventi un livello minimo di flessibilità.

Un quinto principio, infine, secondo Macri è quello secondo cui la continuità del funzionamento di un sistema aperto è assicurata da impulsi esterni che assicurano o, quanto possibile, aumentino l’ordine o organizzazione del sistema. (Entropia negativa)

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2.2 – Il Sistema “STET”

Il sistema Stet è costituito da un gruppo finanziario che svolge la propria attività nel settore delle telecomunicazioni mediante proprie società operative sia come concessionario del servizio pubblico telefonico, sia come produttore ed installatore di infrastrutture e apparacchiature telefoniche.

La sua caratteristica principale è quella di una impresa che presta un servizio pubblico a prezzi amministrati dallo stato, svolgendo la propria attività in un ambito privatistico, pur sottostando a un regime gestionale tipico delle società a partecipazione statale.

La STET è nata nel 1933 ad opera dell’IRI (Istituto per la ricostruzione industriale) che, a sua volta, era stato creato dallo Stato per far fronte alla grave crisi in cui versava il paese dopo la crisi del 1929 e per risollevare diverse grandi aziende in difficoltà a seguito del crack bancario del 1933.

L’IRI incorporò diversi istituti bancari e, trasformandosi in Ente di gestione permanente, affidò a diverse aziende controllate la gestione monopolistica di pubblici servizi concessa dallo Stato.

In particolare concentrò la propria attenzione sulle aziende di servizo che gestivano attività e servizi utili allo sviluppo economico del paese, come i trasporti aerei e marittimi, la rete autostradale, le telecomunicazioni ed alcune industrie di base in campo meccanico, cantieristico e siderurgico.

Nel campo delle telecomunicazioni, il servizio telefonico ha subito assunto una preminenza rispetto ad altri sistemi di comunicazione (ad.es. il telegrafo) per le prestazioni che offriva, mantenendo tale posizione di privilegio – dal punto di vista degli investimenti – anche dopo l’avvento della radio e della televisione. Solo dopo gli anni ’60 tale situazione sarà parzialmete insidiata dall’avvento dell’elettronica e della telematica.

Rispetto al quadro generale dell’economia, il telefono ha rappresentato per l’Italia un nodo vitale per la vita delle aziende fin dall’età del decollo industriale avvenuto nel nostro paese dalla fine del secolo scorso alla prima guerra mondiale.

Fino al 1920, tuttavia, il servizio telefonico è stato essenzialmente un servizio rivolto in prevalenza alle attività economiche, che erano le uniche ad utilizzarlo in forma individuale, mentre per il settore della vita sociale e civile era ancora considerato un bene ad uso collettivo (posti telefonici pubblici).

Solo dopo gli anni ’20 il telefono diviene in Italia un business di rilievo mentre occorre attendere il secondo dopoguerra per registrare la svolta che, mediante massicci investimenti, permette al telefono di diventare uno strumento di uso comune.

Nell’ambito di questo sviluppo e considerato il telefono come un bene di pubblica utilità, lo Stato, mediante l’IRI e, appunto la STET, interviene con un peso crescente nel settore della telefonia divenendone l’unico gestore e permettendo alla STET di operare in regime monopolistico.

Le strategie d’intervento e di espansione seguite dal gruppo STET, nel corso della sua storia, sono state diverse. In modo sintetico si può affermare che una strategia d’innovazione, di reti ed impianti, finalizzata all’utilizzo efficiente degli impianti e delle risorse umane è stata seguita nei primi anni della sua costituzione, nel periodo dell’immediato dopoguerra e negli anni 1953 – 1957 e 1965 – 1970.

Normalmente questa strategia innovatrice si è accompagnata ad una tendenza razionalizzatrice delle strutture organizzative e dei metodi di direzione che spesso ha assunto la configurazione di una reale rivoluzione del panorama manageriale.

L’evoluzione tecnologica e le vicende economiche degli anni ’70 e ’80 hanno prodotto trasformazioni radicali e profonde nel campo delle telecomunicazioni che hanno avviato un processo di rinnovamento totale del settore.

La STET, certamente uno dei principali attori di tale evoluzione, sia come gestore del servizio pubblico che come produttore d’impianti ed apparecchiature, è stata pesantemente coinvolta in questa specie di rivoluzione economica e tecnologica, al punto d’aver modificato radicalmente la propria struttura interna, anche a causa dell’enorme crescita che le ha permesso di divenire una delle più grandi holding italiane.

Già agli inizi degli anni ’70 la STET si configurava, nel panorama del mondo industrializzato, come l’unica holding (eccetto l’ATT degli Stati Uniti) che affrontava le sfide delle nuove tecniche telematiche con una struttura ad integrazione verticale completa: dalla ricerca di base, alla produzione dei componenti e delle apparecchiature, al loro impianto, fino alla gestione del servizio.

Ai primi degli anni ’70 la struttura della STET, come gruppo, abbracciava quattro grandi aree: l’esercizio ( SIP, ITALCABLE, TELESPAZIO ), la ricerca e produzione di apparecchiature elettroniche e per telecomunicazioni ( CSELT, SIT SIEMENS, SELENIA, ELSAG, SGS-ATES, UNIDATA), l’impiantistica ( SIRTI ), le attività di servizio (SEAT, ILTE, e altre società minori ).

Con questo quadro generale la STET affrontò la sfida della seconda metà degli anni ’70 ove i nuovi campi aperti alle telecomunicazioni vennero delineati con maggiore chiarezza ma che, per contro, necessitavano uno sforzo finanziario eccezionale nella ricerca e nello sviluppo di nuove tecnologie.

Proprio in questo periodo sulla STET gravarono gli anni di generale recessione e stagnazione della situazione economica mondiale e nazionale con il risultato di un progressivo peggioramento della situazione finanziaria delle sue controllate che, tra l’altro, subirono gli insufficienti aumenti o il vero blocco delle tariffe telefoniche in una fase inflazionistica elevata.

In questo periodo la necessità per la STET di riorganizzare il gruppo su linee che consentissero di cogliere le nuove opportunità economiche offerte dalla telematica si scontrò con la scarsità di risorse finanziarie interne e con la gravosità di ricorrere al credito offerto dalle banche.

Il fatto nuovo che permise un recupero di economicità del gruppo STET, oltre che di efficienza, fu la correzione di alcune strategie che permisero la promozione, tra le aziende manufatturiere e di impiantistica, di una diversificazione dei mercati, soprattutto esteri, e quella dei prodotti, secondo un indirizzo polisettoriale, pur rimanendo nell’ambito delle tecnologie della telecomunicazione.

Tale scelta è stata ripagata dal ritrovato equilibrio economico delle società operative che agiscono prevalentemente in condizioni di libera concorrenza, cosa che ha permesso la privatizzazione di consistenti quote di capitali azionari di alcune società, tra le quali la SIP e la SIRTI, e la loro quotazione in borsa.

Le società del gruppo STET sono state le prime ad uscire dalla crisi degli anni ’70, sia viste come società partecipate dallo Stato che come aziende del sistema d’impresa italiano. La vitalità del settore ha certamente contribuito, in modo determinante, a questa rinascita, tuttavia si può agevolmente riscontrare, come fattore di ripresa, anche uno specifico modello di azione e motivazione manageriale.

Ritrovata una solidità economica ed una economicità di gestione, il gruppo STET per far fronte all’ondata concorrenziale dei nuovi servizi di telecomunicazione da parte degli imprenditori privati, fin dagli inizi degli anni ’80 ha riproposto con forza all’autorità politica il tema della razionalizzazione del sistema delle telecomunicazioni italiano al fine di porlo al passo delle esigenze di sviluppo del paese, senza penalizzare il ruolo centrale del gruppo e mettere in discussione il modello monopolistico con capitale a maggioranza pubblica.

Tale razionalizzazione, rispondendo ad esigenze strategiche, ha necessariamente avuto notevoli risvolti organizzativi che hanno affiancato ed agevolato il raggiungimento degli obiettivi di gruppo.

Nella nuova filosofia organizzativa, funzionale alle mutate esigenze strategiche, fù riconosciuto un ruolo centrale alla ottimizzazione della gestione delle risorse umane sia dal punto di vista del reclutamento che da quello della formazione.

In questa ottica le risorse umane sono risultate, nella pianificazione strategica del gruppo STET, un fattore di sviluppo e d’investimento che ha contribuito in modo cospicuo al raggiungimento dei propri fini istituzionali.

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2.3 – Il Sistema “Pubblica Amministrazione”

Volendo analizzare la “Pubblica Amministrazione” dal punto di vista della teoria dei sistemi sarà necessario innanzitutto individuare con la maggiore esattezza possibile i confini della stessa.

Vittorio Mortara, nel suo volume “Introduzione alla pubblica amministrazione italiana”, sostiene l’impossibilità di definire con esattezza l’area della Pubblica Amministrazione e propone, di contro, l’utilità di individuare un metodo di analisi operativo idoneo ad individuare, senza schematismi rigidi, aree d’interesse pubblico da ricondurre nell’ambito della categoria concettuale della Pubblica Amministrazione.

Il Mortare riconosce nell’organizzazione centrale e periferica dello stato il nucleo focale della Pubblica Amministrazione che tradizionalmente viene denominato “Centrale”: ministeri, organi di controllo, organi decentrati degli stessi ministeri, aziende autonome.

Anche gli organismi del governo locale sono senza dubbio parte integrante della pubblica amministrazione: le regioni, le provincie, i comuni, etc.

Mortara ricomprende, naturalmente, le forze armate, le scuole, il sistema sanitario nazionale e la stessa magistratura nell’ambito della Pubblica Amministrazione, pur sottolineando che tali strutture sono caratterizzate da problematiche diverse sostanzialmente da quelle tipiche di altre strutture pubbliche che tuttavia non nè possono determinare l’esclusione dal sistema “pubblica amministrazione”.

Partendo da questo nucleo centrale, Mortara individua un’ampia area in cui si applicano in maniera decrescente, man mano che ci si allontana dal nucleo centrale, le considerazioni che valgono per la pubblica amministrazione intesa in senso stretto.

Delineare, oggi in particolare, confini precisi di questa area appare molto difficile, tuttavia in essa rientrano sicuramente le strutture semiautonome, denominate enti pubblici non economici, che curano settori delle assicurazioni sociali, dell’istruzione superiore, della ricerca scientifica e che si occupano, prevalentemente a livello locale, di programmazione territoriale, di incentivazione industriale, della cura dell’installazione di servizi pubblici (enti di gestione portuale o aereoportuale, aziende di trasporto pubblico, etc.).

La stessa “industria di stato”, intendendo per essa il complesso delle industrie controllate indirettamente dallo stato attraverso il meccanismo degli enti di gestione e delle partecipazioni statali, di cui la STET è parte, da diversi studiosi è stata inserita nell’ambito della Pubblica Amministrazione, anche se in quella zona d’ombra che delimita l’incerto confine tra pubblico e privato.

Come si può notare la Pubblica Amministrazione occupa un’area molto vasta e talmente differenziata al proprio interno da rendere perfettamente comprensibile le difficoltà che sorgono quando si cerca di inserirla e “razionalizzarla” nell’ambito di un sistema. Ciò, tuttavia, non impedisce di analizzarla dal punto di vista della teoria dei sistemi che comprende, come vedremo in seguito, una serie di concetti che si adattano bene allo studio della Pubblica Amministrazione.

Per comprendere il vasto ed articolato contesto della Pubblica Amministrazione è bene in primo luogo sottolineare che esso, in tutto il mondo, è in rapida espansione; non vi è dubbio che in quasi tutti i paesi, nell’ultimo decennio, si è assistito ad una enorme espansione del settore pubblico, sia in termini di persone che in termini di risorse utilizzate sia, infine, in termini di servizi e beni prodotti.

Proprio quest’ultimo aspetto ha determinato una sostanziale modifica delle Pubbliche Amministrazioni, in particolare in Europa.

Almeno due fenomeni hanno caratterizzato l’evoluzione dei compiti delle Pubbliche Amministrazioni. In primo luogo il mutamento del carattere e dell’ideologia dello stato verificatosi nell’ultimo secolo.

Nella prima fase di consolidamento le ideologie correnti hanno attribuito allo stato, in particolare le democrazie occidentali, compiti estremamente limitati che hanno indotto alcuni studiosi a definire tale modello di stato come “cane da guardia”: tra tali compiti ampia prevalenza avevano quelli connessi alla salvaguardia dei diritti fondamentali dei cittadini; in tale periodo grande rilevanza si dava al settore che si occupava della raccolta delle risorse finanziarie. Apparati di polizia, di giurisdizione ed intendenze di finanza erano gli organi caratteristici dello stato liberale all’epoca della sua nascita.

Verso gli ultimi decenni dell’Ottocento in concomitanza alle prime mobilitazioni di massa, incoraggiate dai movimenti socialisti e sindacali, lo stato perdeva progressivamente le caratteristiche del “cane da guardia” e la Pubblica Amministrazione assumeva in prima persona la gestione di attività che venivano ritenute d’interesse pubblico: l’istruzione, la cura e prevenzione delle malattie, l’assistenza e le assicurazioni sociali. A ciò si deve aggiungere la cura dei sistemi di trasporto ed il maggiore intervento dello stato nell’edilizia pubblica che ha causato un progressivo aumento dell’intervento pubblico nelle opere infrastrutturali.

Questa modifica dell’attività della Pubblica Amministrazione, determinata da una mutata ideologia, se da un lato ha coinciso con il passaggio allo “stato del benessere” che più propriamente può definirsi “stato assistenziale” ha comportato una moltiplicazione della stessa, sia in termini di strutture che di personale e di risorse impiegate.

La crisi del 1929 ha determinato l’ultima trasformazione dei modelli statuali. In questo periodo è sorto lo “stato programmatore” determinato dall’esigenza di adottare una serie di misure idonee a fronteggiare la grave crisi.

In questa fase la Pubblica Amministrazione, particolarmente quella degli stati più progrediti, si assume anche il compito di guidare e programmare in modo sistemico l’economia dello stato con l’intento di evitare, per il futuro, il ripetersi di catastrofi economiche simili a quelle della recessione del ’29.

Lo Stato, e per esso la struttura pubblica, non si sente più obbligato ad arrestarsi di fronte al settore produttivo che da sempre era considerato il regno dell’iniziativa privata. Da questo momento la Pubblica Amministrazione opera a fianco dei produttori privati, per guidarli ed aiutarli nei momenti di difficoltà, fino al punto di sostituirsi a essi ove ritenuto necessario.

Se questo profilo storico, estremamente breve e schematico, è valido per la maggioranza degli stati occidentali si deve comunque sottolineare che le pressioni ambientali in cui le diverse realtà pubbliche operano hanno determinato notevoli differenze sul piano strutturale ed organizzativo.

In Italia la Pubblica Amministrazione, pur seguendo le differenti fasi di crescita determinate dai processi appena evidenziati, è stata sottoposta ad un processo di accrescimento in termini di risorse umane a seguito delle pressioni esercitate in periodi ricorrenti da masse di “disoccupati intellettuali” che non trovavano sbocco sul mercato del lavoro.

Se questa rapidissima panoramica può spiegare in parte l’evoluzione della Pubblica Amministrazione, esiste altresì un ulteriore fattore, interno alla struttura, che ha certamente contribuito a far assumere una forma così “spettacolare” all’apparato pubblico. Tale fattore è dipendente dal modello strutturale che la maggior parte delle organizzazioni pubbliche ha adottato e che è individuato nella “burocrazia” la quale, oltre a consistere in un modello strutturale, identifica anche una filosofia di comportamento degli addetti alle strutture organizzative.

Non intendendo descrivere in questa sede, anche se sommariamente, il modello “burocratico”, si vorrebbe solo richiamare l’attenzione sul complesso di meccanismi e norme che delineano i percorsi di carriera, in particolare in Italia, propri del modello burocratico e che spesso incentivano una sorta di competizione tra reparti ed uffici il cui sbocco, ineluttabilmente, è una tendenza spontanea all’espansione di quadri e strutture che, senza un apposito sforzo organizzativo, non è comprimibile.

Ripercorrendo quanto esposto fin qui si può sostenere che la Pubblica Amministrazione italiana ha, per un verso, seguito le linee di sviluppo delle altre strutture occidentali, passando dalla funzione di “cane da guardia” a quella di “intervento sociale ed economico”, mentre, per altri versi, è stata pesantemente condizionata da fattori ambientali, quale la necessità di operare come ammortizzatore sociale per la disoccupazione intellettuale, e da fattori interni alla struttura come, ad esempio, il modello burocratico adottato.

Tutto ciò ha determinato una evoluzione della nostra struttura pubblica che lentamente si è allontanata dai modelli in uso presso le Pubbliche Amministrazioni occidentali divenendo, di fatto, un fattore di ritardo nello sviluppo economico e sociale del paese, cosa questa ripetutamente sottolineata da diversi strati dell’opinione pubblica italiana.

Tale susseguirsi di critiche ha posto in crisi, se così si può dire, il modello italiano della struttura pubblica che attualmente non riesce più a soddisfare le esigenze della collettività con conseguente prolificazione di progetti di riforma della stessa tesi a modificare il suo funzionamento in termini di efficienza ed efficacia.

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2.4 – I DUE SISTEMI A CONFRONTO

Prima di passare a confrontare i due sistemi STET e Pubblica Amministrazione, si ritiene utile sottolineare alcune caratteristiche che la teoria dei sistemi ha ritenuto di individuare in una struttura amministrativa.

Prendendo spunto da quanto esposto dal Macrì nel suo scritto “L’Amministrazione come sistema”, si possono riconoscere in qualsiasi amministrazione una serie di elementi e caratteristiche tipiche di un sistema, come, ad esempio, la pluralità deli elementi che la compongono, l’esistenza di interrelazioni tra i diversi elementi, l’esigenza che ciascun elemento abbia degli obiettivi, una serie di meccanismi per assicurare agli elementi rapporti con il mondo esterno e la constatazione che l’intero sistema “amministrazione” funzione prevalentemente a seguito di impulsi esterni.

Tutto ciò, immediatamente percepibile per chi si occupa dello studio di una amministrazione, se correlato alla teoria sistemica può rendere ragione del motivo di alcune scelte organizzative e del tipo di risposte che la struttura emette.

La constatazione che il sistema “amministrazione” è dotato di una pluralità di elementi, strettamente collegati da una rete di interrelazioni, che operano, seguendo singoli obiettivi, per raggiungere in modo armonico la finalità più ampia che lo stesso sistema, nella sua globalità, si è dato, è certamente ovvia.

L’apporto originale della teoria dei sistemi è la considerazione che tale struttura interna è finalizzata, globalmente, a rispondere alle sollecitazioni che il sistema riceve dall’ambiente esterno.

Tale presupposto è il punto di partenza per analizzare e determinare i motivi per cui un sistema, talvolta, non è più in grado di funzionare in sintonia con le sollecitazioni che pervengono dall’ambiente esterno, mettendo in crisi una caratteristica tipica dei sistemi: il raggiungimento di uno degli obiettivi fondamentali che è quello della propria sopravvivenza.

A questo punto, ipotizzando che sia la STET che la Pubblica Amministrazione siano sub-sistemi di un sistema più ampio identificato nella società nazionale, si ritiene possibile operare un confronto tra i due sub-sistemi analizzando le risposte che essi hanno dato, in termini organizzativi e di raggiungimento degli obiettivi, alle sollecitazioni che, appunto, provengono dall’ambiente esterno.

Naturalmente, come sottolineato in premessa, questa analisi sarà ristretta al segmento della selezione e formazione della dirigenza che, pur se ristretto, ha una notevole valenza, tale da poter porre in luce le differenti filosofie che sono alla base del funzionamento dei due sistemi analizzati.

In questa sede appare utile sottolineare come il “sistema STET”, sottoposto alla fine degli anni ’70 ad una serie di sollecitazioni esterne che ne hanno determinato un momento di crisi, ha saputo ridefinire i propri obiettivi e adeguare ad essi la propria struttura organizzativa rispondendo così a quell’esigenza di “sopravvivenza” tipica di un sistema.

Attualmente la Pubblica Amministrazione italiana attraversa una crisi simile, determinata dall’inadeguatezza delle risposte che la stessa fornisce all’ambiente esterno. Tale inadeguatezza,in larga massima, trova origine dal tipo di struttura organizzativa che, progettata in un altro contesto storico e sociale, risulta orientata, attualmente, a perseguire in prevalenza l’obiettivo della propria “sopravvivenza” senza essere in grado di avviare un processo di auto-ristrutturazione funzionale alle mutate esigenze dell’ambiente esterno.

Si può sostenere, quindi, che i due sistemi, STET e Pubblica Amministrazione, sottoposti a sollecitazioni di pari intensità, che ne hanno messo in discussione la sopravvivenza, stanno dando risposte di segno contrario: la STET è stata in grado di produrre uno sforzo di ristrutturazione, sia culturale che organizzativo, tale che oggi è considerata uno dei migliori gruppi finanziari italiani, mentre la Pubblica Amministrazione, allo stato attuale, non è ancora riuscita a superare la grave crisi che l’attanaglia e riesce sempre meno ad erogare risposte e servizi all’altezza delle altre Pubbliche Amministrazioni europee.

Analizzando le filosofie strategiche ed organizzative dei due sistemi e le metodologie di selezione e formazione delle rispettive classi dirigenziali, forse, si potrà intravedere una strada utile per superare questo periodo di grave crisi.

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3.0 – STRATEGIE A CONFRONTO IN TEMA DI DIRIGENZA

3.1 – CHI SONO I DIRIGENTI ?

Prima di entrare nel merito di come la STET e la Pubblica Amministrazione affrontano i problemi connessi con la dirigenza, sembra utile definire brevemente il ruolo che la dirigenza ricopre, o dovrebbe ricoprire, all’interno di una struttura organizzativa.

Riprendendo quanto già accennato in tema di “teoria dei sistemi”, in sede applicativa si deve sottolineare che se, da un lato, il risultato operativo di un sistema (STET e/o Pubblica Amministrazione) dipende ed è funzione di una serie di variabili strettamente correlate in quanto interne al sistema o influenti su di esso dall’esterno, dall’altro risulta inutile, e spesso estremamente dannoso, tentare una modifica del funzionamento del sistema operando su una unica variabile o su un numero limitato di esse.

C’è da sottolineare altresì, come fatto dal MACRI’ in un seminario dell’IRSI del marzo 1980, che la funzione di controllo nei sistemi aperti che si caratterizzazono per un forte interscambio con l’ambiente esterno, costituisce lo strumento che assicura in modo contemporaneo la stabilità e l’adattamento del sistema e permettere da un lato il raggiungimento degli obiettivi anche in presenza di fattori di “disturbo”, siano essi interni o esterni, e, dall’altro, mettere in moto meccanismi di “adattamento” organizzativo quando i fattori di disturbo rendano impossibile il raggiungimento degli obiettivi prefissati.

Da ciò si deduce che la “funzione di controllo” deve considerarsi come un elemento critico nell’economia di funzionamento di un sistema, pur riconoscendo a tutti gli altri fattori uguale importanza. La funzione di controllo acquista una valenza particolare in quanto assicura al sistema la capacità di funzionamento e di evoluzione mediante la gestione e lo “sfruttamento” di quella che il Macrì definisce una “ricchezza” tipica dei sistemi aperti: l’informazione.

A questo punto risulta facile individuare i dirigenti come coloro che sono investiti, all’interno di un sistema, della funzione di controllo.

In questa ottica il dirigente, nel ruolo di artefice della stabilità e, contemporaneamente, della evoluzione del sistema, provvede alla programmazione dell’attività, alla gestione delle risorse ed al controllo dei risultati in funzione degli obiettivi che sono stati definiti nell’ambito dei “vincoli del sistema. Quale elemento di adattamento e trasformazione deve tenere costantemente sotto controllo il contesto esterno ed interno, individuare le trasformazioni in atto e le tendenze evolutive della realtà esterna cercando di percepire ed attuare in anticipo e con originalità i possibili sviluppi organizzativi e culturali che il sistema dovrà adottare per rispondere coerentemente all’ambiente esterno.

In sostanza la funzione dirigenziale può identificarsi, da un lato, in una posizione di “linea” che, con sufficiente autonomia, pur nell’ambito di indirizzi generali, sovrintende all’attività di programmazione, provvede all’organizzazione del lavoro ed alla gestione delle risorse, controllando i risultati ed adottando le eventuali azioni correttive, mentre, dall’altro, in una posizione di “staff” che influisce concretamente sull’evoluzione del sistema, studiando ed introducendo nelle strutture o nelle procedure quelle modifiche o adattamenti dettati dalla necessità di un continuo adeguamento dell’azione dello stesso alle sollecitazioni esterne.

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3.2 – IL RUOLO DELLA DIRIGENZA

Precisato l’ambito cui ci si riferisce quando si parla di dirigenza, sarà utile analizzare quale ruolo svolge la stessa nell’ambito della STET e della Pubblica Amministrazione.

A) La Dirigenza in STET

Per capire esattamente il ruolo della dirigenza nel gruppo STET è necessario un rapido excursus storico dell’evoluzione delle teorie organizzative aziendali e della relativa elaborazione culturale.

Le scuole classiche, che si rifanno alle elaborazioni del Taylor, avevano sostenuto che l’uomo è una variabile dipendente dall’organizzazione e che il successo della stessa dipende unicamente dal modo in cui viene progettata e realizzata; l’uomo era solo un fattore di produzione.

In contrapposizione, le scuole sociali dell’organizzazione (Mc Gregor) individuavano nel fattore umano una variabile indipendente a cui la stessa era subordinata. Secondo questo filone di pensiero il successo di una struttura organizzativa si determinava in funzione delle conoscenze in possesso degli uomini a disposizione in termini di motivazioni, esigenze ed acquisizioni.

Le scuole sistemiche (Ansoff), da ultimo, sostengono che non esiste una priorità tra il fattore umano e l’organizzazione; in realtà tra i due poli esiste una relazione di interdipendenza.

La scuola sistemica individua una stretta correlazione tra una serie di fattori il cui mix determina le probabilità di successo o meno di una organizzazione; i fattori sono, da un lato, il fenomeno organizzativo e le risorse umane e, dall’altro, la tipologia del business e le strategie collegate.

Questi quattro fattori devono essere opportunamente miscelati al fine di rispondere in modo ottimale alle sollecitazioni che provengono dall’ambiente esterno nel cui ambito opera il sistema.

Quest’ultima teoria ha informato la strategia organizzativa della STET agli inizi degli anni ’80 quando decollò il piano di risanamento del gruppo.

Il presupposto fù che nell’opera di risanamento si dovesse concedere una particolare attenzione al momento organizzativo ed alla gestione delle risorse umane che, negli anni ’70, con il loro scadimento avevano determinato la crisi della holding.

Le scelte adottate in ambito STET furono:

1) un rapporto più stretto tra i vertici e i dirigenti finalizzato al miglioramento della struttura organizzativa;

2) la ricerca di nuove strategie che puntassero a migliorare l’efficienza del gruppo in relazione al rapporto costi-organizzazione.

Corollario importante a queste scelte di carattere organizzativo e strategico fu la ricerca ed il mantenimento, da parte del vertice STET, dell’equilibrio economico e, contemporaneamente, l’attuazione di una sorta di monitoraggio dell’ambiente esterno, in cui operava il gruppo, finalizzato all’adeguamento delle strategie.

In questo contesto, che potremmo definire culturale, l’obiettivo dei responsabili della gestione delle risorse umane diventava quello di promuovere un processo continuativo e pianificato basato su politiche ed interventi di supporto funzionali, di volta in volta, alle strategie di cambiamento del gruppo.

I fattori critici di tale metodologia, in materia di gestione delle risorse umane, sono stati:

– coerenza tra “fattori critici di successo” (FCS) del business, le strategie, gli uomini e le strutture;

– pianificazione quanti/qualitativa delle risorse;

– formazione al cambiamento;

– sistema premiante legato ai FCS del business;

– incentivazione sui risultati;

– interventi sui ruoli per favorirne la flessibilità.

Naturalmente, quando ha preso avvio il piano di risanamento del gruppo STET, il ruolo dei dirigenti è stato riconsiderato ed è divenuto centrale per l’intera strategia rappresentando essi la fascia superiore delle risorse umane e potendo, a loro volta, impostare il cambiamento nell’ambito della fascia dei quadri superiori.

Lo schema riportato in fig. 2 sintetizza l’elaborazione effettuata nell’ambito della teoria sistemica dei modelli organizzativi e culturali di cui si dota un sistema in relazione alla stabilità o all’instabilità dell’ambiente esterno.

I vertici della STET, partendo da questo schema di riferimento e considerando instabile l’ambiente in cui operava il gruppo, hanno elaborato le strategie gestionali delle risorse umane incentrando tale sforzo in modo particolare sulla dirigenza.

La finalità è stata quella di ottenere una classe dirigenziale che per numero e qualità assicurasse l’integrazione tra gli obiettivi ed i risultati dell’organizzazione.

Parallelamente si è ricercata una sorta d’integrazione tra uomini ed organizzazione per ottenere la massima rispondenza tra gli obiettivi del gruppo STET ed il comportamento dei dirigenti

Linee guida di tale “gestione pianificata” sono state la convinzione che le risorse umane, ed i dirigenti in particolare, sono un investimento di lungo periodo, che strutturalmente rappresentano un capitale rigido, e che devono essere considerati un elemento critico per il business.

Ciò ha comportato la necessità di elaborare, nel medio/lungo periodo, un progetto da cui risultasse il numero e la qualità delle risorse necessarie determinando, nel contempo, i costi e le flessibilità che fossero funzionali ad un adeguato patrimonio coerente ai diversi “momenti” strategici del gruppo.

Ritornando alla teoria dei sistemi, la fig. 3 riassume le caratteristiche richieste da un sistema alla classe dirigenziale in relazione alla tipologia dell’ambiente esterno.

In essa si possono riscontrare, nella colonna relativa all’ambiente instabile, le caratteristiche richieste al dirigente STET ed a cui tende il piano formativo del gruppo.

Il sistema con cui vengono gestiti la formazione ed i percorsi di carriera dei dirigenti STET trae origine dalla:

– valutazione della posizione;

– valutazione delle prestazioni;

– valutazione del potenziale;

fondamento del Progetto Management IRI lanciato nel 1982, finalizzato alla gestione e sviluppo della dirigenza del Gruppo con un adeguato “sistema premiante”, basato anche sulla incentivazione del conseguimento di specifici obiettivi (MBO: Management by Objectives).

Il corrispettivo economico di tale incentivazione è correlato al raggiungimento di risultati predefiniti per la posizione occupata dal dirigente in esame, nell’esercizio considerato.

Il sistema sul quale s’incentrano le valutazioni che il gruppo STET effettua sul dirigente e dal quale derivano i successivi percorsi di carriera, supera il criterio dell’anzianità; esso descrive, mediante la valutazione della posizione , il valore ed il contenuto di una determinata posizione organizzativa in un determinato momento e contribuisce a definire il ruolo ed il profilo professionale del dirigente.

La valutazione della prestazione, riferita ad ogni singolo dirigente, analizza il comportamento organizzativo e premia il raggiungimento dei risultati contribuendo a determinarne la retribuzione individuale complessiva.

La valutazione del potenziale, infine, negando che lo sviluppo della carriera sia basato esclusivamente sulle conoscenze acquisite ad una determinata data, tende a sottolineare ed incentivare lo sviluppo delle capacità e delle attitudini che i piani formativi consolideranno.

Da questa rapida analisi del sistema di gestione e sviluppo in uso presso la STET si rileva che la classe dirigenziale del gruppo è sottoposta ad una periodica e costante valutazione che instaura all’interno dell’organizzazione un clima di alta concorrenzialità e, contemporaneamente, favorisce una accentuata osmosi di risorse tra le posizioni, sia trasversalmente che verticalmente.

Tale situazione potrebbe far pensare ad una struttura organizzativa in cui sia presente una forte conflittualità cosa che, invece, non si riscontra in quanto l’intero sistema è incentrato su meccanismi che tendono, come vedremo in seguito, alla massima possibile obiettività delle valutazioni.

Dal sistema descritto deriva una certa “instabilità” accettata dai diretti interessati in quanto scaturisce dalla filosofia con cui è stata architettata la struttura organizzativa che deve essere funzionale alle strategie elaborate dal gruppo STET elaborate, annualmente e/o pluriennalmente, finalizzate a dotare di strumenti idonei le singole aziende per rispondere efficacemente alle sollecitazioni del mercato.

Le diverse “posizioni” dirigenziali nascono e muoiono in relazione alle esigenze strategiche del gruppo che non considera vincolante, in un dato momento, l’esistenza di una posizione e la “testa” che la occupa, anche se con risultati brillanti. Ciò che vincola è solo il riconoscimento dell’importanza strategica della posizione, a prescindere da colui che la presidia.

Il ruolo dei dirigenti, quindi, è di condurre al meglio le strutture cui sono preposti ben sapendo, da un lato, che solo le proprie prestazioni influiscono sulla determinazione del loro livello retributivo e, dall’altro, che i vertici aziendali nella determinazione dell’assetto organizzativo non sono vincolati dal rispetto delle posizioni ricoperte dai vari dirigenti che non possono vantare un mantenimento di “status”, come avviene nel settore pubblico, in contrasto con le scelte strategiche del gruppo STET.

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B) La dirigenza pubblica

Nel tentativo di definire il ruolo che la dirigenza ricopre all’interno della Pubblica Amministrazione italiana ritengo utile rifarsi all’art.97 della Costituzione che testualmente recita:

“I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e la imparzialità dell’amministrazione.

Nell’ordinamento degli uffici sono determinate le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilità proprie dei funzionari.

Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge.”

Altra norma che si ritiene utile ricordare è quella contenuta nel DPR 10.1.1957 n. 3 concernente lo “Statuto degli impiegati civili dello Stato” che al Capo III, art. 31, commi dal 1° al 3°, prevede che:

“L’impiegato ha diritto all’esercizio delle funzioni inerenti alla sua qualifica e non può essere privato del suo ufficio, tranne che nei casi previsti dalla legge.

Può essere destinato a qualunque altra funzione purchè corrispondente alla qualifica che riveste ed al ruolo cui appartiene.

Quando speciali esigenze di servizio lo richiedano, l’impiegato può temporaneamente essere destinato a mansioni di altra qualifica della stessa carriera.”

Probabilmente le norme appena riportate sono le principali artefici dell’attuale situazione in cui versa la Pubblica Amministrazione italiana.

Anche se all’epoca della loro emanazione potevano avere una loro “ratio”, determinata dall’esigenza che la pubblica amministrazione post-bellica garantisse i cittadini, appena usciti dal tunnel della dittatura e della guerra, da abusi e malgoverno, di fatto hanno reso possibile l’attuale sclerotizzazione delle strutture pubbliche che in base a queste, ed altre, norme sono governate unicamente mediante leggi, decreti e regolamenti.

Quanto visto, parlando della STET, in tema di organizzazione che si adegua in continuazione alle strategie decise dai vertici, nella Pubblica Amministrazione, stante l’attuale normativa, non è assolutamente proponibile.

L’art. 97 della Costituzione prevede appunto che tutti gli uffici pubblici siano organizzati secondo disposizioni di legge, per cui qualsiasi modifica necessita di una normativa specifica che la rende estremamente lenta e vischiosa.

Per legge sono determinate, altresì, le competenze, le attribuzioni e le responsabilità dei funzionari preposti, cosa che rende ancora più complicato qualsiasi tentativo di modifica organizzativa.

Se, come abbiamo visto, l’art. 97 della Costituzione può considerarsi la fonte primaria da cui deriva la quasi nulla capacità “auto-organizzativa” della pubblica amministrazione, l’art. 31 del DPR 10.1.1953 n.3 ha determinato tutta una normativa, nell’ambito del pubblico impiego, che obbliga le diverse amministrazioni a riconoscere ai propri dipendenti l’esercizio delle funzioni proprie della qualifica in cui sono inquadrati.

Nell’ambito della dirigenza tale norma ha determinato l’impossibilità di una gestione della stessa improntata alla ricerca della massima efficienza delle strutture pubbliche.

Tale affermazione non vuole certo disconoscere le professionalità esistenti all’interno della dirigenza pubblica, ma soltanto porre in luce che l’articolazione in diverse qualifiche della carriera dirigenziale e l’obbligo sancito dalla legge di riconoscere, per ciascuna qualifica, una serie di competenze e di mansioni oltre all’affidamento della direzione di determinati settori ha completamente vanificato la possibilità di una gestione della dirigenza orientata all’ottimizzazione dell’efficacia e dell’efficenza delle strutture pubbliche in quanto l’affidamento di determinati settori e/o uffici non avviene, di solito, a seguito della valutazione della professionalità del singolo dirigente, bensì in relazione al “grado” ricoperto.

La situazione delineata scaturisce dall’approccio con cui è stata progettata, a suo tempo, l’organizzazione e la gestione della pubblica amministrazione.

L’approccio, che il Mortara definisce “giuridico”, considera la Pubblica Amministrazione come un insieme di organi e persone diretto alla “applicazione di norme giuridiche”.

Valore guida di tale concezione è quello della “legittimità” dell’operato della pubblica amministrazione, della sua rispondenza, cioè, alle leggi.

In ossequio a tale valore guida tutto, all’interno della Pubblica Amministrazione, viene regolato per legge, decreto e regolamento; dall’organizzazione delle strutture alla gestione del personale, dai percorsi di carriera dello stesso all’affidamento delle mansioni, dalla determinazione degli obiettivi alla valutazione del raggiungimento o meno degli stessi.

La ricerca della “legittimità” ha determinato, nell’ambito delle strutture pubbliche italiane, il consolidamento di una sorta di reticolo di norme che ormai imbrigliano l’attività delle stesse e le rendono inefficaci ed inefficienti.

L’approccio “giuridico”, certamente valido quando lo Stato era chiamato a svolgere la funzione di “cane da guardia” risulta oggi inadatto a garantire il ruolo che la collettività chiede alla Pubblica Amministrazione che consiste prevalentemente nell’erogazione di una serie di servizi.

Per soddisfare tale esigenza appare più funzionale architettare la struttura ed il funzionamento della stessa secondo i canoni di quello che il Mortara chiama “approccio efficientistico” che appunto considera la Pubblica Amministrazione come un sistema di uomini e mezzi finalizzato alla produzione di beni e servizi per la collettività.

Tale approccio considera “valore guida” l’efficienza, cioè la ottimizzazione del rapporto tra beni e servizi forniti e risorse, umane tecniche e finanziarie, utilizzate per la produzione e distribuzione degli stessi.

Confrontando i due approcci si può dire, semplificando al massimo, che il primo considera importante garantire un determinato modo di fare le cose, quello previsto dalla normativa; il secondo approccio, invece, privilegia la ricerca del risultato ed il “fare” le cose, considerando strumentali le modalità con cui le stesse vengono fatte.

Secondo il Mortara “il primo considera gli obiettivi come un elemento del tutto secondario e li subordina alle leggi, mentre il secondo pone gli obiettivi in primo piano e considera la legge solo come uno degli strumenti eventualmente necessari per raggiungerli”.

Le due scuole di pensiero tuttavia sono concordi nel definire un elemento comune ai due approcci: quello della necessaria “neutralità” della pubblica amministrazione quale presupposto di garanzia del corretto operare delle strutture pubbliche in ossequio alle norme che le regolano.

Tale importante puntualizzazione tende ad evitare le critiche di coloro che vedrebbero nell’approccio efficientistico un mezzo per svincolare la Pubblica Amministrazione dal controllo di “legittimità” e, conseguentemente, non garantire più gli interessi della collettività.

La recente legislazione in tema di organizzazione della Pubblica Amministrazione sembra dettata da una sorta di compromesso tra l’approccio giuridico e quello efficientistico, cosa che ha comportato, a giudizio di molti, un ulteriore rallentamento ed inefficienza dell’attività delle strutture pubbliche non preparate, culturalmente ed organizzativamente, ad attuare modelli lavorativi simili a quelli in uso presso il settore privato.

Tornando per un attimo alla teoria dei sistemi, nella Pubblica Amministrazione italiana si è tentato di incidere, modificandoli, solo su alcuni elementi dell’insieme, cosa questa che ha comportato un generale rallentamento dell’attività dell’intero sistema.

Tale sorta di contraddizione è ancora più evidente affrontando l’analisi della dirigenza pubblica cui è, o dovrebbe essere, demandato il compito di rendere efficienti le strutture pubbliche.

Nell’esperienza pubblica il termine dirigente è stato mutuato dal settore privato ove contraddistingue colui che , nell’ambito delle proprie competenze, ha il ruolo di “alter ego” dell’imprenditore. Come figura professionale è il risultato di un processo di decentramento decisionale che il “padrone” ha delegato ai “manager”.

Il dirigente privato è quindi una figura professionale che ha trovato la sua legittimizzazione dando prova della richiesta abilità nell’organizzazione dei fattori produttivi, nel padroneggiarli e nel garantire all’imprenditore un “reddito d’impresa” proporzionale agli investimenti fatti.

Tale figura, trasportata all’interno delle strutture pubbliche, incontra diversi ostacoli “culturali” dal momento che il tipo di legittimazione esistente in campo privato trova difficoltà ad affermarsi.

La legittimazione dei dirigenti pubblici, stabilita “per legge”, è stata sempre di tipo prevalentemente esecutivo, visto che questi devono garantire esclusivamente la “legittimità” dell’azione amministrativa. Nello schema della Pubblica Amministrazione italiana il dirigente è chiamato ad attuare ciò che viene deciso in altra sede, che di solito s’identifica con quella politica; non sono cioè dei “decisori” in senso proprio, sia pure nell’ambito di responsabilità gestionali predefinite.

Anche se con il DPR 748 del 1972 si è introdotto il principio della dirigenza e con esso quello dell’istituzione di una categoria professionale di “decisori” che fossero di supporto alla classe politica cui è demandato il compito di delineare le strategie generali dell’attività della Pubblica Amministrazione, di tale decreto si è attuata in realtà soltanto la parte relativa alla competenza esclusiva dei vari livelli dirigenziali, mentre si è completamente elusa la realizzazione della parte più pregnante delle caratteristiche di direzione, come sono viste in ambito privatistico: quelle relative allo studio e preparazione delle decisioni strategiche, le funzioni ispettive e di controllo dell’erogazione dei servizi, le funzioni di studio ed organizzazione delle strutture e delle risorse umane e finanziarie, etc.

In pratica sono rimaste inattuate tutte quelle funzioni, tipiche della dirigenza privata, che implicano capacità professionali funzionali alla sopravvivenza e all’adattamento del sistema e che legittimano i manager privati ad assumere decisioni in sostituzione dell’imprenditore.

Ciò ha reso possibile la creazione di una classe dirigenziale titolare “per decreto” di competenze esclusive completamente sganciate da una logica strategica ed organizzativa tendente a dare efficienza ed efficacia al “sistema” Pubblica Amministrazione.

Quanto detto fin qui rende ragione del motivo per cui gli attuali dirigenti pubblici, loro malgrado, sono in possesso di una cultura prevalentemente giuridica. Fin’ora, infatti, si è sempre richiesto loro di interpretare ed applicare le normative e di garantire la “legittimità” dell’azione amministrativa.

In questo momento storico, invece, la collettività pretende dalla dirigenza pubblica una migliore organizzazione dei fattori produttivi in mano alle strutture della Pubblica Amministrazione al fine di ottimizzare l’erogazione dei servizi da rendere.

Tale richiesta, tuttavia, rimane inevasa a causa dell’inadeguatezza “culturale”, che non vuol dire professionale, di gran parte degli stessi che, unita alla già accennata inadeguatezza dell’impianto normativo che regola le strutture pubbliche italiane, provoca l’attuale crisi dell’intero sistema gestionale, sia in termini di efficenza che in termini di economicità.

A dirigenti formati per garantire la legittimità dell’azione dell’apparato pubblico, cui si è richiesto fino ad oggi ed in prevalenza una formazione di tipo giuridico, non si può chiedere di attuare metodologie di gestione privatistica ed efficentistica,potrimonio di una cultura del tutto diversa. Per ottenere ciò è necessario un piano formativo particolareggiato che necessita un ampio impiego di mezzi finanziari oltre che un congruo lasso di tempo.

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3.3 – I PERCORSI DI CARRIERA

Strettamente correlato a quanto esposto fin qui è il problema dei percorsi di carriera dei dirigenti, sia pubblici che privati, che rientra nella sfera della filosofia con cui è stato architettato il sistema premiante di una struttura organizzativa.

A) STET

Presso il gruppo STET l’inquadramento dirigenziale è alquanto variegato non rispondendo ad una logica unica ma dipendendo dalla realtà delle singole aziende e dalle relative esigenze strategiche e, quindi, organizzative.

Nelle aziende più grandi la dirigenza si articola su diversi livelli che vanno dal “dirigente” fino a terminare a “condirettore generale”. Oltre tale livello si entra nell’area dei “Capi Azienda” che, in ambito STET, sono definiti “vertici” e che sono responsabili della progettazione delle strategie aziendali e della loro realizzazione.

E’ il caso di SIP, ITALCABLE, ITALTEL, SEAT, SIRTI.

Nelle aziende di minori dimensioni, come ad esempio CSELT, TELESPAZIO, AET e NECSY, i livelli dirigenziali sono più contenuti e definiti sempre in vista delle specifiche esigenze, in base a criteri di efficacia/efficienza delle relative strutture.

Premesso ciò, è necessario sottolineare che il conferimento di una qualifica non presuppone presso la STET l’acquisizione di determinati diritti di ordine giuridico e/o economico. Come si accennava in precedenza l’universo della dirigenza STET, soprattutto a livello di aziende operative, è contraddistinto da una notevole mobilità nell’assegnazione delle posizioni di responsabilità, a sua volta determinato dalle evoluzioni dell’assetto organizzativo, strettamente correlato alle scelte strategiche che vengono adottate dai vertici del gruppo e delle singole aziende.

In tale contesto è importante il ruolo che svolge il sistema di gestione esistente all’interno della STET che permette di valutare adeguatamente i singoli dirigenti e consentire l’individuazione dei dirigenti più adatti, per potenziale e professionalità, a ricoprire determinate posizioni funzionali al raggiungimento degli obiettivi strategici del gruppo.

A ciascuna qualificha dirigenziale non corrisponde, necessariamente e per “norma”, la assegnazione della responsabilità di una determinata unità organizzativa.

Ciò comporta che ciascun dirigente, nel corso della propria carriera, è sottoposto ad un continuo processo valutativo e, conseguentemente, la propria posizione, all’interno della struttura organizzativa, può variare sia per importanza della struttura cui è preposto, sia per consistenza del proprio trattamento retributivo complessivo.

E’ necessario a questo punto delineare alcune caratteristiche del sistema premiante adottato presso il gruppo STET.

Esso di basa su tre poli: una parte retributiva non definita contrattualmente (aumenti discrezionali e premi in base alla politica retributiva del gruppo e/ alla valutazione della prestazione da parte del superiore diretto), una incentivazione correlata a livelli di prestazione definiti come “normale”, “buono”, “ottimo”, ed una mobilità dei dirigenti in base ad un criterio che collega strettamente la struttura organizzativa, il valore delle posizioni ricoperte, la valutazione del potenziale.

In pratica, adottando determinate metodologie di valutazione delle posizioni ricoperte e delle prestazioni dei dirigenti la STET definisce la politica retributiva nei confronti degli stessi, in modo che risulti in linea con le strategie aziendali e la sua pratica realizzazione e che gratifichi in modo chiaro ed equo elevati standards di prestazione.

La STET ritiene inoltre necessario, per lo sviluppo del gruppo, pianificare opportunamente le carriere consentendo ai responsabili delle scelte strategiche, i vertici aziendali e/o di gruppo, di scegliere in base a periodiche valutazioni del potenziale dei singoli dirigenti.

Nella valutazione delle posizioni viene utilizzato il “sistema Hay”, adottato metodologicamente in tutte le aziende del gruppo IRI.

Esso consiste nella modellizzazione dell’organizzazione e nell’individuazione della “popolazione di dirigenti e quadri” in stretta connessione con le esigenze strategiche del Gruppo STET e delle singole aziende.

Per ciascuna posizione della struttura organizzativa viene definito il profilo (responsabilità, dimensione, natura, ampiezza) ed i reali contenuti operativi; effettuata tale rilevazione viene assegnata a ciascuna posizione un punteggio in relazione a determinati fattori quali: competenza, problem solving (definita anche Iniziativa creatrice), finalità (influenza dei risultati).

La somma dei punteggi relativi ai primi due fattori indicano l’indice di complessità della posizione, mentre i punti del terzo fattore rappresentano “l’importanza” della posizione organizzativa.

Terminata la fase di attribuzione dei punteggi o “pesi” alle diverse posizioni della struttura organizzativa, si passa all’elaborazione delle “curve retributive” che si ottengono mediante un diagramma in cui sull’asse delle ascisse vengono riportati i punteggi di ciascuna posizione, mentre su quello delle ordinate il valore delle corrispondenti retribuzioni percepite dalle risorse che la occupano.

Tale sistema permette di verificare il grado di equità interna oltre a confrontare, in termini di competività, le retribuzioni col mercato del lavoro.

Collegato alla valutazione del peso delle posizioni è l’incentivo MBO introdotto nel 1982 dal Progetto Management IRI e finalizzato all’incentivazione dei vertici aziendali.

Esso si basa sul conseguimento di obiettivi predefiniti ed è correlato al raggiungimento percentuale dei risultati stabiliti per la posizione occupata dal dirigente, nell’esercizio considerato.

Il premio eventualmente conseguito rappresenta un evento di carattere straordinario e non ripetibile come tale negli esercizi succesivi; la sua erogazione non costituisce, pertanto, il presupposto per un diritto successivo anche se dovessero ripetersi analoghe situazioni, nè può essere considerato come parte integrante della retribuzione.

Senza entrare nel merito dei calcoli utilizzati per determinare il valore monetario del premio, basta sottolineare che, una volta determinato l’ammontare massimo dell’incentivo, questo viene correlato in percentuale agli obiettivi individuali e comuni assegnati all’azienda del gruppo.

Ciascun obiettivo, a sua volta, viene “pesato” secondo le metodologie Hay e misurato su una scala organizzata su 5 livelli di prestazione; l’incentivo viene corrisposto quando viene raggiunta una prestazione complessiva valutabile quanto meno di terzo livello (normale).

Relativamente alla valutazione delle prestazioni questa è finalizzata in primo luogo alla motivazione della dirigenza al conseguimento dei risultati mediante una chiara definizione di compiti e responsabilità, e, in secondo luogo, per favorire l’efficacia operativa del dirigente cui l’azienda comunica i risultati che si attende dallo stesso e, successivamente, rappresenta l’apprezzamento o meno del suo operato.

Il sistema della valutazione del dirigente in base ai risultati e ai contenuti della posizione è certamente più complesso di quello incentrato sul comportamento in quanto sottintende, per il valutato ed il valutatore, una medesima cultura professionale e manageriale tale da permettere per ambedue l’accettazione delle regole del gioco.

Tale modello di valutazione necessita di una catena delle valutazioni che leghi in modo coerente l’intero sistema aziendale e di gruppo, dai vertici ai quadri alti, e che sia attuata in modo assolutamente trasparente pur garantendo la dovuta riservatezza.

Una delle garanzie insite nel sistema è il sistema gerarchico; il valutatore è a sua volta valutato, il valutato è a sua volta valutatore.

La valutazione avviene annualmente e viene definita in connessione del grado di raggiungimento degli obietivi da parte del valutato.

Questi sono definiti, all’inizio dell’anno di riferimento, tra il valutatore ed il valutato e sottoposti al livello organizzativo superiore che li autorizza e li trasmette alla funzione Personale.

Al termine dell’esercizio di riferimento i risultati della prestazione del dirigente sono misurati, come già detto, in base ad una scala da 1 a 5 ove il livello intermedio 3 rappresenta la “normalità” della prestazione. Ogni scheda valutativa è accompagnata da osservazioni che evidenziano gli elementi che hanno determinato il giudizio e le cause di eventuali scostamenti dalle previsioni.

L’indice della prestazione è dato dal prodotto di ciascun livello (1-5) per il peso relativo della posizione; gli schemi utilizzati per le valutazioni sono contenuti nella scheda 1 allegata.

Tale valutazione si traduce in premio economico mediante un meccanismo alquanto semplice.

Ogni anno ciascuna azienda disegna una curva retributiva che evidenzia il minimo che la stessa intende erogare come premio incentivante per ciascun punteggio.

A partire da questo minimo le retribuzioni dei singoli dirigenti vengono adeguate in base ai risultati delle valutazioni delle prestazioni, portando verso un tetto superiore (max +20 %) coloro che hanno ricevuto un giudizio positivo, non modificando la retribuzione di coloro le cui prestazioni sono rientrate in un giudizio di normalità, riducendo, infine, la retribuzione di coloro che sono stati valutati in modo insufficiente, fino ad un limite minimo pari al -20% della “curva obiettivo.

La valutazione complessiva delle prestazioni avviene, come si può notare, seguendo una procedura alquanto complessa che tende da un lato a garantire l’obiettività del giudizio e, dall’altro, a migliorare in una visione prospettica la gestione dello specifico settore affidato al dirigente oltre alla capacità professionale dello stesso.

Tale processo sfocia, infatti, nella predisposizione di un piano di sviluppo della posizione occupata dal dirigente valutato che viene predisposto dal valutatore unitamente al livello superiore che ha controfirmato la scheda di valutazione; tale piano di sviluppo contiene, oltre ad una sintesi valutativa della prestazione, un insieme di proposte in ordine a cambiamenti di posizione ed eventuali interventi formativi nei confronti del dirigente valutato.

Tale fase di valutazione, denominata “valutazione del potenziale” e fondata su una metodologia specifica, si fonda sull’esigenza del gruppo e delle singole aziende di pianificare lo sviluppo delle risorse manageriali in armonia con il Sistema di Gestione e Sviluppo della Dirigenza promosso dall’IRI con il “Progetto Management” richiamato in precedenza. (vedi scheda 2 allegata)

Come si può notare, all’interno del gruppo STET non esistono per i dirigenti percorsi di carriera predefiniti. La “dirigenza” è una qualifica che potremmo definire “gestionale” ed al cui interno i diversi appartenenti vengono preposti ad unità operative in base alla valutazione che il Gruppo e le aziende effettuano mediante il sistema premiante.

La preposizione alle diverse unità organizzative, la cui importanza varia in funzione della strategia, non avviene tenendo conto del livello specifico del dirigente bensì in relazione alla valutazione delle performance da questi ottenute.

Non esiste una correlazione tra “grado” ed ufficio; i dirigenti STET possono compiere carriere ascensionali, per importanza della posizione ricoperta e, conseguentemente, per incremento retributivo, e discendenti sempre in relazione agli stessi parametri.

Lle responsabilità che possono essere affidate agli appartenenti delle qualifiche dirigenziali, pur variando da azienda ad azienda, sono alquanto diversificate e non correlate in modo orizzontale al grado specifico.

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B) La Pubblica Amministrazione

Prima di analizzare i percorsi di carriera dei dirigenti pubblici è necessario fare un quadro molto generale, e non certo esaustivo, delle norme che regolano il settore della dirigenza.

Nell’attesa di una normativa generale proposta nell’ultima legislatura, ma decaduta, (DDL 3464) il Governo ed il Parlamento hanno proceduto ad interventi settoriali divenuti, a volte, estremamente frammentari sia per i contenuti sia per le fonti di regolazione del rapporto d’impiego dei dirigenti.

L’Amministrazione statale, in primo luogo, per lungo tempo si è vantata di essere regolata da una legge pilota in tema di dirigenza (Legge 748/72) che nel tempo ha influenzato le normative similari degli altri comparti del pubblico impiego.

Attualmente, invece, la dirigenza statale è fra quelle regolate da norme più arretrate in quanto la 748 è stata superata da legislazioni più recenti riguardanti enti locali, parte degli enti pubblici non economici e altre amministrazioni autonome.

Stessa sorte è toccata ai dirigenti di parte degli enti pubblici non economici che, nel 1985 e nel 1987, hanno conosciuto l’estensione della legge 748/72.

A tale situazione recenti provvedimenti hanno sottratto i dirigenti dell’Istituto per il Commercio Estero (1989), che prevede che i rapporti lavorativi dei dirigenti siano retti dai principi del codice civile; ad essi si estende, anche se parzialmente, il trattamento degli assicurativi divenendo privatistico il rapporto di lavoro.

Con legge n. 88 del 28.3.1989 sono state introdotte nell’ambito dei due maggiori enti parastatali (INPS e INAIL) alcune norme che modificano il trattamento giuridico ed economico dei dirigenti per i quali è stabilita una competenza potenzialmente più ampia; possono attuare tutto ciò che non è espressamente attribuito agli organi istituzionali di governo degli Enti.

Nella legge sono previste, per esempio, ampie possibilità di delega da parte del Comitato Esecutivo a favore dei dirigenti, ampliando così la loro legittimazione.

Come si nota, si è passati, per i dirigenti dell’INPS e dell’INAIL, come da ultimo del CONI, da una estensione della normativa che regolava la dirigenza dei Ministeri ad una legislazione speciale predisposta ad hoc che di fatto ha introdotto una sorta di riforma di una parte della dirigenza parastatale.

La legge sul Ministero dell’Università e della Ricerca, del 1989, prevede all’art. 9 che nei confronti del personale del comparto Ricerca, in cui sono compresi diversi enti di notevole importanza come l’ISTAT ed il CNR, si applichi un contratto apposito, triennale, che riguardi anche la dirigenza unitamente al restante personale. In questo caso non c’è una legge nè un regolamento a disciplinare il rapporto di lavoro; esiste un contratto, anche se di diritto pubblico, e probabilmente un regolamento degli enti interessati.

Nell’ambito della Sanità e degli Enti Locali la dirigenza è regolata dagli accordi sindacali che vengono stipulati in base alle procedure previste dalla legge quadro sul pubblico impiego del 1983.

Per gli Enti Locali, in particolare, la legge 142/90 prevede che la dirigenza sia materia fondamentalmente statutaria e regolamentare per cui la stessa non viene disciplinata dalla legge bensì dagli statuti.

Come si può notare, quindi, l’ambito normativo che disciplina la dirigenza pubblica è alquanto variegato; accanto a normative ormai vecchie si stanno affermando, per alcuni comparti, nuove norme che hanno in comune alcuni tratti identificabili nella ricerca di un rafforzamento dell’autonomia decisionale dei dirigenti e naturalmente nella connessa maggiore responsabilità degli stessi, il tutto finalizzato ad una separazione reale tra strategia politica dell’operato della Pubblica Amministrazione e operatività e struttura organizzativa della stessa.

Nonostante tali tentativi di modernizzazione, le norme principali che regolano l’assetto e le carriere dei dirigenti pubblici derivano, almeno concettualmente, dalla legge 748/72.

Come si è sottolineato in precedenza, con il DPR 748 del 72 è stato introdotto nel pubblico impiego italiano il principio della dirigenza come nucleo di “decisori” professionali amministrativi che attuassero le linee strategiche delineate dai “Vertici” politici.

L’articolato delle norme, a differenza di quanto visto nell’ambito della dirigenza STET, ha creato degli ambiti decisionali rigidi di competenza esclusiva, non correlati a delle performance professionali dei singoli ma a delle posizioni giuridiche individuate nel “primo dirigente”, nel “dirigente superiore” e nel “dirigente generale”.

Si è costruita, in pratica, una struttura rigida formata di uffici e competenze al cui interno sono state collocate, secondo il grado ricoperto, le diverse risorse prescindendo da una valutazione del “potenziale” e della “prestazione” intese nel senso delineato occupandoci della STET.

Si è operato ancora secondo gli schemi dello “Stato giuridico” di vecchio tipo, realizzando un sistema legale di garanzie reciproche.

L’intero sistema del pubblico impiego, e della dirigenza in particolare, è stato costruito in modo tale da ammettere, tra lo stato ed i propri dipendenti, unicamente rapporti di tipo garantistico tali da assicurare, nelle previsioni, uno svolgimento pacifico del rapporto di lavoro delineato in tutto dalle norme.

Relativamente alla dirigenza tale situazione ha comportato una quasi totale eliminazione della “funzione di direzione” nei confronti del personale inserito nelle strutture organizzative pubbliche.

Tale sistema garantistico dell’impiegato pubblico, se appariva giustificato nel passato dalla necessità di limitare l’arbitrio dell’amministrazione quando questa si poneva come autoritativa anche nella sfera dei rapporti con i dipendenti e, contemporaneamente, garantiva ai cittadini una corretta prassi amministrativa, realizza oggi l’effetto di impedire una organizzazione funzionale dell’attività della Pubblica Amministrazione che nell’attuale panorama produttivo viene assimilata, come campo di attività, a quello che si usa definire come “terziario avanzato”.

In tale contesto la funzione tipica dei dirigenti è rimasta svuotata di contenuti in quanto gli stessi sono stati adibiti unicamente ad un controllo di legittimità. Nello stesso tempo la previsione dei percorsi di carriera ha risentito del clima “garantistico” vigente all’interno della Pubblica Amministrazione e gli stessi si sono basati su metodologie concorsuali e su avanzamenti che hanno privilegiato l’anzianità di servizio.

Tale meccanismo ha fatto sorgere negli aspiranti dirigenti una “cultura dell’attesa” fondata sulla consapevolezza di poter fare poco per accelerare la propria carriera e, contemporaneamente, di dover fare quel poco in modo estremamente “legittimo” per evitare al massimo “errori interpretativi” che procurerebbero un allungamento dell’attesa.

Di contro nell’ambito della Pubblica Amministrazione si è completamente persa la “cultura della valutazione” che è il motore dell’attività in ambito privato. Tutti gli addetti di questo settore sanno, ed accettano, che la loro attività sia tenuta costantemente sotto osservazione e che l’imprenditore richieda da loro il massimo dell’efficienza e dell’efficacia.

In questa ottica tutti gli addetti del settore privato accettano di essere valutati in relazione alle loro prestazioni e ne accettano i rischi connessi. Naturalmente le tecniche di valutazione, come abbiamo visto, tendono a divenire sempre più obiettive ed ognuno è a conoscenza che gli avanzamenti di carriera avvengono sulla base delle loro prestazioni e che le stesse possono determinare, parimenti, dei rallentamenti se non addirittura delle retrocessioni nell’ambito dell’organizzazione aziendale.

Nell’ambito pubblico, invece, i meccanismi valutativi sono quasi completamente scomparsi; solo per la dirigenza, ed i livelli gerarchici immediatamente precedenti, sono rimasti i “rapporti informativi” che, tuttavia, non incidono in modo reale sui passaggi di qualifica.

Tale assenza della “cultura della valutazione” dei risultati conseguiti, se da un lato pregiudica in modo grave la gestione delle risorse umane da parte del dirigente, cosa che in ambito privato è prioritaria per una corretta conduzione dell’azienda, determina in aggiunta l’impossibilità di una corretta valutazione del dirigente e degli “aspiranti” dirigenti impedendo quindi una gestione della stessa improntata al raggiungimento di una ottimale conduzione delle strutture organizzative mediante la preposizione ad esse di coloro che possano assicurare una gestione efficace ed efficiente.

Nell’ambito della Pubblica Amministrazione italiana prevale la figura del dirigente che il Mortara ha individuato nel “funzionario magistrato” e così delinea: << si tratta del tipo di funzionario più tradizionale (incidentalmente quello che implicitamente prevale in Italia oggi, a giudicare dai criteri di selezione che dal modo di comportarsi che si può notare nella grande maggioranza degli organi della pubblica amministrazione) e più strettamente legato ad una visione ristretta dello stato e dei suoi compiti. Il funzionario “magistrato” si limita ad applicare le leggi alla realtà quale viene riportata al suo esame, non assume iniziative ed ha un margine di discrezione limitato dalla possibilità di interpretare la legge alla luce dei criteri più o meno tradizionali interni alla legge stessa. La sua preparazione coincide con quella prevista per i giudici e consiste in una conoscenza il più possibile approfondita delle varie branche del diritto che gli dovranno indicare in ogni momento sia il “cosa fare” che il “come farlo”.>>

Pur non volendo entrare, in questa sede, in un contesto prettamente politico si ritiene necessario sottolineare un aspetto inerente i percorsi di carriera della dirigenza. Ci si riferisce al dibattito in corso sulla necessità di una sostanziale separazione tra la conduzione “politica” della Pubblica Amministrazione e quella prettamente “gestionale”.

Anche se tale concetto era stato evidenziato nel DPR 748/72 da più parti si è sentita l’esigenza di sottolineare ancora meglio tale separazione. In ogni progetto di riforma, a partire dal ddl 3464, ed in tutte le normative che hanno interessato la dirigenza pubblica e che sono state richiamate in precedenza, non ultima la legge 142 del 1990 sulle autonomie locali, è stata riconfermata, come necessità organizzativa e premessa di efficiente organizzazione, l’esigenza di una forte autonomia della dirigenza dal potere politico.

Pur non volendo entrare nel merito della discussione, è doveroso sottolineare come spesso tale ingerenza, concretizzatasi nelle decisioni dei Consigli di Amministrazione delle diverse strutture pubbliche, ha condizionato, in assenza di un sistema di valutazione obiettivo delle prestazioni, i percorsi di carriera di molti dirigenti pubblici.

Tale ingerenza, unita ad alcuni automatismi fondati sulle “anzianità di servizio” e a procedure concorsuali non idonee a verificare determinate professionalità, ha creato una classe dirigente inadatta, e non per sua colpa, a gestire una pubblica amministrazione secondo i canoni richiesti dalla collettività.

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4.0 – LA SELEZIONE E FORMAZIONE DELLA DIRIGENZA

4.1 – Presupposti e finalità

I concetti di selezione e formazione delle risorse umane sono strettamente correlati in una visione gestionale della struttura aziendale, orientata al raggiungimento di obiettivi predeterminati.

Quando si parla di dirigenza tale affermazione appare ancora più pregnante vista la tendenza, che appare ormai consolidata da parte delle aziende private, di “costruire in casa” i futuri managers aziendali.

In questa ottica la selezione e la valutazione del potenziale dei nuovi assunti in una visione prospettica delle carriere manageriali è decisamente la base del prevedibile successo, o insuccesso, commerciale e/o produttivo dell’azienda.

Il processo selettivo delle risorse umane è naturalmente collegato ed integrato dai piani formativi che ciascuna azienda prevede, e propone, ai dipendenti che ritiene idonei a ricoprire, nel tempo, incarichi sempre più elevati e di maggiore responsabilità gestionale. ( vedi fig. 9)

A tali fini risulta importante dotarsi di alcuni strumenti specifici che possano garantire, oltre ad una obiettività di fondo, il successo del processo di selezione.

In primo luogo è utile individuare i livelli organizzativi interessati alla selezione: ruoli e risorse da tenere sotto osservazione che, normalmente si identificano in due o tre livelli inferiori a quelli propriamente dirigenziali.

Importante è la definizione di regole generali per i passaggi di livello che rivestono particolare importanza per le aziende private: da un circuito aziendale o divisionale ad un altro di holding, da nazionale ad internazionale.

Definiti questi aspetti, diviene fondamentale acquisire validi meccanismi di conoscenza e valutazione delle persone “sotto osservazione”. Tali meccanismi sono individuati, di solito, nella:

– schematizzazione dei fascicoli personali con lo scopo di ordinare, cronologicamente, le esperienze professionali con i relativi giudizi;

– conoscenza diretta e personale del dipendente da parte di un dirigente di grado elevato finalizzata ad ottenere un giudizio globale sulla persona;

– valutazione periodica delle caratteristiche personali e del potenziale al fine di evidenziare le fasi di crescita individuali;

– valutazione sistematica delle prestazioni e dei risultati conseguiti.

Importante è, da ultima, la definizione di criteri di selezione progettati per la valutazione finale di candidati omogenei e tali che siano funzionali alle scelte strategiche dell’azienda.

Accanto a tali metodologie di selezione la funzione della formazione è, come si sottolineava in precedenza, fondamentale per un corretto inserimento del futuro dirigente nel clima aziendale e nella filosofia strategica dell’azienda, pubblica o privata che sia.

La diversità dei livelli di qualità delle prestazioni offerte da aziende private e da pubbliche amministrazioni non può essere ricondotta, in modo semplicistico, a una serie di vincoli imposti alle strutture pubbliche e ad una specie di fatto “genetico” dei dipendenti e dirigenti pubblici.

Più verosimilmente tale diversità trae origine, tra l’altro, dai sistemi di selezione e formazione dei dipendenti pubblici e dei dirigenti in particolare.

Come si vedrà in seguito in modo più dettagliato, in ambito pubblico la selezione per le carriere dirigenziali è, fondamentalmente, un fatto automatico e formale basato in prevalenza su requisiti di anzianità e su prove concorsuali inidonee a saggiare capacità gestionali e professionali. A ciò si deve aggiungere un quasi totale mancanza di piani di impiego e formazione dei futuri dirigenti che, superata la prova concorsuale, non conoscono, di solito, la destinazione ed il contenuto del futuro incarico.

In ambito privato, per contro, il futuro dirigente viene valutato dal suo ingresso in azienda e condotto lentamente verso la posizione mediante un piano formativo tendente ad elicitarne le attitudini e le capacità, il tutto in una ottica funzionale alla struttura organizzativa che, a sua volta, è correlata alla strategia aziendale. ( vedi fig. 10 )

Tale orientamento nella selezione e sviluppo delle risorse umane ha prevalso, nel settore privato, agli inizi degli anni ’80. In precedenza la formazione era prevalentemente finalizzata al miglioramento immediato della prestazione lavorativa senza una particolare cura del “potenziale”.

Il problema dello sviluppo verticale delle risorse umane e della loro selezione, non si poneva e la progettazione formativa era orientata al breve periodo e dominata da una mentalità di tipo prettamente professionale.

Dagli inizi degli anni ’80, in conseguenza di momenti di crisi e in presenza di uno scenario economico e tecnologico in rapida e costante mutazione, la formazione ha assunto un profilo diverso, caratterizzato dallo sviluppo e dalla capitalizzazione delle risorse invisibili dell’organizzazione e finalizzato al miglioramento dei processi di adattamento del “sistema azienda” all’instabilità dell’ambiente esterno.

In ambito privato le attività formative sono molto sviluppate e rivolte alla creazione di eccedenze di capacità delle risorse umane al fine di poter gestire al meglio le necessità di cambiamento.

In tale ottica la formazione diviene uno strumento di supporto ai processi di cambiamento organizzativo e culturale dettati da modifiche strategiche imposte all’impresa dall’ambiente.

La sua funzione è quella di creare un surplus di risorse umane, dotate di determinate peculiarità, da cui “selezionare”, di volta in volta, le professionalità occorrenti ad una efficiente gestione aziendale.

Secondo tale filosofia, dunque, la funzione formativa non è un concetto “astratto” ed immutabile, bensì un processo in continua evoluzione e ri-progettazione. I bisogni formativi non vengono calati dall’alto ma rilevati, sia pure a differenti livelli di approfondimento, attraverso il confronto tra le caratteristiche professionali richieste dalle esigenze strutturali e strategiche e l’insieme delle risorse umane disponibili e costantemente tenute sotto “osservazione” attraverso la valutazione del potenziale, all’ingresso in azienda ed in itinere.

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4.2 – Selezione e formazione nel Gruppo STET

Le metodologie di selezione e formazione delle risorse umane, adottate dal Gruppo STET, sono state modificate profondamente a partire dagli inizi degli anni ’80 come conseguenza di una mutata filosofia gestionale che presuppone come fondamento del successo delle politiche aziendali la centralità della struttura organizzativa e delle risorse umane.

Da tale impostazione è derivata la scelta di individuare i futuri dirigenti all’interno delle risorse umane presenti nelle aziende del gruppo e di curare la loro crescita professionale mediante piani di formazione mirati e concordati con gli interessati.

Al centro di tale strategia è stata posta la “valutazione del potenziale” e, parallelamente, l’dentificazione dei ruoli-chiave dirigenziali a cui sono stati attribuiti, come si è visto in precedenza, dei punteggi che ne indicassero il peso all’interno delle strutture organizzative.

Tale sistema permette di raggiungere l’obiettivo di posizionare, almeno in linea di tendenza, l’uomo giusto al posto giusto e raggiungere una integrazione ottimale tra l’efficienza della struttura organizzativa e le scelte strategiche compiute dai vertici del gruppo e delle singole aziende.

I livelli di formazione, per quanto concerne la dirigenza, sono strutturati su tre direttrici.

A tale proposito si deve sottolineare come all’interno della STET, e dell’IRI di cui la STET è espressione, sia accettato il principio della formazione permanente per cui nessuno è esente da processi formativi che, naturalmente, variano d’intensità in ragione delle finalità.

Tale principio, ad esempio, informa il corso “Vertici” ed “Executives” gestito direttamente dall’IRI e che compone la linea più elevata di formazione, rivolto ai Presidenti, Amministratori Delegati e Direttori Generali (Vertici) e ai Direttori Centrali (Executives) delle aziende del gruppo; tale programma di formazione si completa con l’iniziativa “Leadership e Innovazione” che è rivolta a quella fascia di dirigenti che, per età ed esperienza, viene considerata “potenziale” di particolare interesse dai vertici della STET e dell’IRI.

Il programma “IRI – Sviluppo competitivo” si innesta in un’ottica di gestione integrata delle risorse manageriali che ritiene d’investire risorse formative non solo su chi già ricopre posizioni di responsabilità apicale ma anche su coloro che, pur ricoprendo ruoli centrali nelle diverse realtà organizzative, dovranno in futuro assumere compiti di crescente importanza per le aziende.

I seminari hanno l’obiettivo generale di sensibilizzare i partecipanti alle tematiche del cambiamento e alle esigenze di un adeguato bagaglio professionale e personale, dando un’ampia panoramica sulle caratteristiche del Gruppo IRI, dei suoi sistemi di funzionamento, nonchè delle esperienze peculiari sul piano dell’innovazione strategica e organizzativa e dell’internazionalizzazione.

Il programma si articola su tre moduli, che si susseguono ad intervalli di circa un mese e complessivamente hanno la durata di circa 12 giorni.

Tale livello formativo si completa con un programma specifico per gli Executives, gestito sempre dall’IRI, che ha come obiettivi il favorire un aggiornamento continuo su alcune tematiche critiche per il ruolo dei destinatari riguardanti l’integrazione tra scenari esterni e orientamenti strategici del Gruppo.

Tende altresì a sviluppare un atteggiamento aperto degli Executives all’innovazione competitiva e ad intensificare lo scambio di conoscenze ed esperienze tra i partecipanti, favorendo in tal modo il dialogo tra gli stessi e un rafforzamento dello spirito e della cultura di Gruppo.

Il secondo livello di formazione viene gestito direttamente dalla STET ed è rivolto alla formazione manageriale oltre che all’accrescimento professionale delle risorse umane presenti all’interno delle diverse aziende del Gruppo.

Tale attività formativa viene gestita dalla STET mediante strutture didattiche che sono la “Scuola Superiore G. Reiss Romoli”, con sede a L’Aquila e il CEDEP con sede a Fontainebleau in Francia.

E’ questo, certamente, il livello di formazione più importante ai fini dell’individuazione e della crescita professionale dei futuri dirigenti del Gruppo.

Il programma di “Formazione Manageriale”, avviato nel 1981, si è proposto di coinvolgere progressivamente una “massa critica” della dirigenza per un processo di modifica culturale, correlata alle nuove scelte strategiche del Gruppo, di arricchimento professionale e di sviluppo di una maggiore conoscenza complessiva dell’ambiente lavorativo che favorisse uno spirito di appartenenza.

La logica della progettazione didattica tende allo sviluppo manageriale del ruolo dirigenziale ed è programmata d’intesa con le Aziende del Gruppo che possono considerarsi “clienti” della linea di formazione sviluppata dalla STET. Infatti i corsi di formazione predisposti presso le scuole della STET vengono offerti alle Aziende del Gruppo che, in base ad un piano di sviluppo delle potenzialità presenti all’interno delle singole aziende, deciso d’intesa con la STET, individuano i candidati ai corsi (fascia “middle” – di massima 3/4 anni di dirigenza – con medio/alta valutazione del potenziale)

L’attività di formazione posta in essere dalla STET tende comunque ad integrarsi con le iniziative IRI (Corsi Vertici, Executives, Neodirigenti) ed aziendali che, come vedremo, costituiscono la terza linea formativa del Gruppo e tendono all’individuazione reale dei futuri dirigenti.

L’attività di Formazione Manageriale del Gruppo si articola su due livelli: la formazione generale e la formazione mirata.

La Formazione Generale si realizza, a livello internazionale, presso la scuola di Fontainebleau (Corso CEDEP) e tende a dare un’opportunità formativa qualificante per sviluppare nei partecipanti una mentalità manageriale più aperta ai confronti con diverse culture nazionali.

Il “Corso Interno di Gruppo” si svolge, invece, a L’Aquila, presso la SSGRR e viene programmato annualmente in base alle domande di formazione delle Aziende.

La Formazione Mirata consiste in iniziative successive alla formazione manageriale di base, collegate allo sviluppo della dirigenza e mirate ad una verifica sistematica dei risultati ottenuti nel corso base, con il coinvolgimento sia dei partecipanti che della gerarchia, e nella definizione di iter formativi di rinforzo ed arricchimento professionale calibrati sulle esigenze personali dei partecipanti.

Il terzo livello di formazione, affidato alle diverse Aziende, è quello che più direttamente svolge un compito di “selezione” nei confronti dei futuri dirigenti e tende a indirizzare le attività formative verso lo sviluppo di risorse “pregiate”, privilegiando le fasce alte dei quadri e, in questo ambito, gli “alti potenziali” con preferenza delle risorse operanti in comparti strategici rispetto al conseguimento degli obiettivi di fondo.

In particolare c’è da sottolineare che la politica delle Aziende del Gruppo STET è particolarmente sensibile all’inserimento ed alla valorizzazione di giovani risorse neolaureate.

Per le aziende del Gruppo Stet il neo-laureato rappresenta una risorsa strategica preziosa anche per la sua scarsa disponibilità attuale, specie per le specializzazioni tecnologiche, e per il futuro.

Da questa considerazione scaturisce l’attenzione nella pianificazione delle attività rivolte ai laureati neo-assunti per migliorarne la qualità e la produttività del loro impiego finalizzando l’attività formativa alla massimizzazione del potenziale.

Tale strategia punta ad una minimizzazione degli sprechi formativi, evitando così fenomeni di formazione apparente, e ad una velocizzazione dell’inserimento del neo-laureato nelle realtà operative in modo da favorire un resa dell’investimento in capitale umano e la sua permanenza in azienda attraverso il sistema premiante ed una pianificazione della carriera che, per coloro ad alto potenziale, possa sfociare in un rapido avvicinamento all’area dirigenziale.

Da tale scelta strategica, adottata nei primi anni dello scorso decennio, deriva la scarsa propensione del Gruppo STET alla ricerca dei dirigenti al di fuori delle proprie risorse umane. Nei rari casi in cui ciò è avvenuto la scelta è stata dettata dall’esigenza di disporre di professionalità specifiche relative ad aree d’innovazione tecnologica e dall’esigenza di acquisire, in modo rapido, il relativo know how patrimonio di pochi specialisti.

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4.3 – Selezione e formazione nella Pubblica Amministrazione

Quando si parla di selezione e formazione nella Pubblica Amministrazione si deve necessariamente far riferimento alle normative che regolano tale settore e cercare di ritrovare in esse un filo conduttore che possa delineare la filosofia di base che le informa.

In primo luogo c’è da dire che nella Pubblica Amministrazione, si accede normalmente per concorso pubblico. Tale aspetto, che rientra nelle metodologie del reclutamento, è stato più volte e da più parti posto in discussione ma non si ritiene che sia un punto significativo rispetto alle problematiche affrontate in questo studio.

Certo, poter disporre di risorse umane già selezionate al momento dell’assunzione mediante metodologie che indaghino a fondo le caratteristiche dei candidati anche dal punto di vista del potenziale e non solo della cultura “formale”, di solito di taglio giuridico, potrebbe certamente aiutare la diffusione nella Pubblica Amministrazione di una filosofia gestionale diversa da quella oggi presente.

Tuttavia il problema centrale è certamente quello relativo alla formazione fornita successivamente all’ingresso del dipendente nella Pubblica Amministrazione e della selezione che la stessa attua per individuare i propri dirigenti.

In ambito pubblico, sempre inteso come “sistema” nel senso delineato in precedenza, apparentemente,e organizzativamente, la problematica formativa viene affrontata in modo simile al “sistema STET”.

La struttura più importante del settore pubblico è la “Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione”,istituita con DPR n. 3 del 10.1.1957 art. 150 e 151 e successivamente riordinata con il DPR 29.5.1962 n. 576 e il DPR 21.4.1972 n. 472, a cui sono assegnati compiti di direzione e coordinamento dell’attività di formazione nell’ambito della Publica Amministrazione (le attività di formazione organizzate dalle singole amministrazioni devono essere autorizzate dalla Scuola) oltre che di studio e ricerca sempre in tema di formazione.

Accanto alla Scuola l’attività di formazione viene altresì svolta da una serie di scuole istituite presso le singole amministrazioni dello Stato, degli Enti pubblici non economici, delle autonomie locali e delle aziende autonome che si occupano di formare i dipendenti delle singole amministrazioni.

Azzardando un parallelismo con il “sistema STET” si può dire che la filosofia strutturale del sistema formativo può considerarsi simile: una Funzione superiore a base del sistema (la SSPA) che opera con finalità di coordinamento e di “stimolo” per l’intera attività formativa di “gruppo” ed una serie di strutture didattiche “aziendali” che si occupano prevalentemente di fornire una formazione specialistica relativa all’area di attività di ciascuna Amministrazione.

Se, invece, ci si addentra nell’analisi specifica delle finalità e dell’utilizzo della formazione nell’ambito del settore pubblico si nota che i due sistemi, STET e Pubblica Amministrazione, attuano strategie profondamente diverse.

Soffermandoci nell’ambito dell’area dirigenziale la prima differenza di rilievo, che può considerarsi estesa a tutto il personale dell’impiego pubblico, consiste nelle modalità di percorrenza delle carriere e dei passaggi di qualifica.

Queste sono completamente, e rigidamente, regolate dalle norme di legge e non permettono assolutamente percorrenze, che potremmo definire “atipiche”, al di fuori da quanto previsto dalle normative dei singoli comparti. A ciò si deve aggiungere che normalmente, salvo alcune eccezioni, i passaggi di qualifica sono strettamente condizionati da prove concorsuali che possono essere sostenute solo dopo un numero di anni prestabilito di permanenza in una determinata qualifica. Il tutto è, inoltre, condizionato dalle vacanze dei posti che si determinano nelle diverse qualifiche.

E’ assolutamente esclusa, quindi, la possibilità di carriere “accelerate” o “preferenziali” non sancite dalla normativa; i posti previsti in organico, sono inoltre un limite invalicabile per il conferimento delle qualifiche dirigenziali.

Tenendo presente l’intera normativa relativa ai passaggi di qualifica, qualsiasi dipendente pubblico, al momento del suo ingresso nella Amministrazione di appartenenza, potrebbe “profetizzare” il proprio percorso di carriera tenendo anche presente le statistiche in merito ai pensionamenti, alle pre-morienze, ai licenziamenti, alle dimissioni e considerando, da ultimo, un tasso fisiologico di insuccesso in qualche passaggio “concorsuale”.

Il sistema previsto per l’accesso alle carriere dirigenziali, valido per i Ministeri e le Aziende autonome, gli enti del parastato regolati dalla legge 70/75, per gli Enti di ricerca e le Università e gli Enti locali, è stato da ultimo riformato con la legge 10.7.1984 n. 301.

Ai sensi della nuova normativa, tutti i posti che si rendono vacanti su base annua sono attribuibili per il 40% mediante “concorso speciale per esami”, per il 40% mediante “corso concorso di formazione dirigenziale” presso la Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione, ed il restante 20% tramite “concorsi pubblici per titoli ed esami.

Al concorso per esami sono ammessi i dipendenti della carriera direttiva dell’Amministrazione appartenenti alle qualifiche settima e superiori che possano vantare una anzianità di almeno nove anni di servizio effettivo.

L’esame consiste in due prove scritte ed un colloquio su materie in cui prevale l’orientamento giuridico.

Al corso-concorso di formazione dirigenziale sono ammessi i dipendenti pubblici che posseggano le stesse caratteristiche previste per il concorso speciale. L’ammissione al corso avviene mediante una valutazione comparativa, dei titoli presentati dai candidati, effettuata da una commissione nominata dal Ministro competente o, per gli enti del parastato, dal Presidente dell’Amministrazione che ha bandito il Corso-concorso.

Al concorso pubblico per titoli ed esami, infine, sono ammessi i dipendenti della Pubblica Amministrazione in possesso di Laurea, appartenente alle qualifiche dell’area direttiva e professionale con almeno cinque anni di servizio nella qualifica stessa.Sono ammessi, altresì, professori universitari di ruolo, ricercatori universitari con almeno due anni di servizio, liberi professionisti in possesso di laurea ed iscritti all’albo professionale da almeno cinque anni, nonchè dirigenti di imprese pubbliche e private in possesso di laurea e con almeno cinque anni di esercizio delle funzioni.

Per i vincitori dei tre tipi di concorso, previsti per l’accesso alle qualifiche dirigenziali, è previsto uno stages obbligatorio presso grandi imprese pubbliche o private per compiervi studi comparativi sull’organizzazione e gestione aziendale.

Per quanto concerne le promozioni a dirigente superiore la normativa prevede che vengano effettuate, nel limite dei posti disponibili al 31 dicembre di ogni anno, per la metà attribuendo, secondo il turno di anzianità, la qualifica ai primi dirigenti che alla data di cui sopra possano vantare almeno tre anni di effettivo servizio senza demerito.

Per il restante 50% dei posti disponibili la qualifica di dirigente superiore viene conferita mediante concorso per titoli di servizio al quale sono ammessi i primi dirigenti che compiano, sempre entro il 31 dicembre, tre anni di effettivo servizio nella qualifica.

La nomina a dirigente generale, infine, è conferita con decreto del Presidente della Repubblica a seguito di deliberazione del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro competente. La nomina a dirigente generale, unico caso nell’ambito del pubblico impiego, esula da un sistema di carriera sequenziale e può essere conferita anche ad impiegati di altri ruoli e di Amministrazioni diverse da quella per cui si effettua il conferimento della qualifica.

E’ altresì previsto che la qualifica di dirigente generale possa essere conferita a persone estranee alla Pubblica Amministrazione.

Come si può notare, questo meccanismo di carriera esclude qualsiasi valutazione, da parte dei superiori gerarchici e dei “Vertici” delle Amministrazioni pubbliche del potenziale dei dipendenti e delle attitudini degli stessi a svolgere mansioni superiori e/o diverse nell’ambito delle qualifiche dirigenziali. E’ un sistema estremamente meccanicistico congeniato, almeno nelle premesse, per assicurare un formale “garantismo” del dipendente pubblico ed una trasparenza nelle valutazioni e nei percorsi di carriera.

In modo particolare per le qualifiche di dirigente superiore il conferimento è quasi in assoluto condizionato dall’anzianità di servizio dei dirigenti che avanzano la domanda di concorso.

Da queste considerazioni, risulta evidente che a fronte di una struttura formativa apparentemente simile, le metodologie e le finalità della selezione e della formazione sono, per la STET e la Pubblica Amministrazione, profondamente diversi.

Tale marginalità delle problematiche della selezione e della formazione nell’ambito del settore pubblico scaturisce, probabilmente, dall’impostazione generale, di tipo legittimistico, dell’azione della Pubblica Amministrazione che non possiede una capacità auto-organizzativa di tipo strategico in merito alla gestione delle risorse umane.

Le massiccie legificazioni, che nel tempo si sono accumulate sulle strutture organizzative pubbliche, hanno creato una congerie di vincoli, nei confronti dei “vertici” delle diverse realtà pubbliche, siano esse Ministeri, Enti Locali e Pubblici, o Aziende autonome, che impediscono normalmente possibilità di ristrutturazioni snelle e veloci, che rispondano in modo immediato alle esigenze della collettività, oltre che di utilizzare i dipendenti in modo funzionale e aderente alle diverse caratteristiche professionali di ciascuno.

A causa di tale situazione la formazione, che elettivamente è uno strumento di adeguamento delle professionalità individuali alle esigenze della struttura o, periodicamente, di adattamento delle stesse professionalità alle mutate esigenze organizzative, nell’ambito pubblico è considerata, in molti casi, come uno strumento di accrescimento di titoli da inserire nella propria cartella personale e da sfruttare in sede di passaggi di qualifica per “merito comparativo”.

Solo presso alcune strutture pubbliche, che svolgono un tipo di attività particolarmente qualificato e specialistico, si possono riscontrare processi formativi progettati con sostanziale visione strategica.

La Scuola Centrale Tributaria “E. Vanoni”, l’Istituto Diplomatico, le attività formative che l’INPS e l’INAIL svolgono per i propri dipendenti, la Scuola Centrale Antincendi del Corpo dei Vigile del Fuoco, l’Istituto Superiore delle Poste e delle Telecomunicazioni, sono alcuni esempi di scuole settoriali che godono di una ottima reputazione per l’attività di formazione che riescono a fornire ai partecipanti.

Si può notare che si tratta di aree di attività pubblica ove è indispensabile un continuo aggiornamento degli addetti in concomitanza dell’evoluzione normativa e tecnica e ove la formazione riveste un orientamento prettamente specialistico ed è dettata dalle esigenze immediatamente operative delle Amministrazioni.

Al di fuori di queste esperienze non esiste nella Pubblica Amministrazione una “filosofia” della formazione vista come strumento accessorio e funzionale della selezione attuata in modo simile alle metodologie e strategie delineate parlando della STET.

Le ore che da parte del dipendente dovrebbero essere dedicate alla frequenza di seminari e/o stages sono considerate, nell’ambito pubblico, come un distoglimento dello stesso dal lavoro di ufficio: è raro che ciò sia inteso come un investimento “produttivo” e come un accrescimento della risorsa umana e, quindi, di una forma di “capitalizzazione” del patrimonio dell’Amministrazione.

La spesa iscritta in bilancio per la formazione viene considerata, di solito, un onere puro e semplice che si tende a contenere; solo ultimamente, dopo lunghe trattative, gli accordi per i rinnovi di quelli che impropriamente vengono definiti “contratti pubblici” contengono norme in tema di formazione.

La sensazione, tuttavia, è che tale materia venga subita con malcelato dissenso da parte della parte datoriale pubblica dando prova che per essa la formazione, punto di forza degli imprenditori privati, per gli amministratori pubblici è un onere in termini di spesa e di tempo.

Tale filosofia di fondo, presente in modo diffuso nella Pubblica Amministrazione, è forse ancora più intensa a livello di dirigenza.

La mancanza di sistemi obiettivi di valutazione delle performance e del potenziale dei dirigenti, la relazione biunivoca tra qualifica e grado posseduto e “titolarietà” dell’ufficio, come previsto dalle norme, non ha mai fatto sorgere in ambito pubblico l’esigenza di curare fin dall’inizio la formazione e lo sviluppo professionale dei funzionari direttivi delle singole amministrazioni al fine di selezionare tra di loro i più “adatti” a ricoprire, pur a seguito di una prova concorsuale, qualifiche dirigenziali.

La formazione dei dirigenti pubblici è normalmente un fatto individuale e, necessariamente, ciascuno, in tale “sfida”, segue le proprie inclinazioni e intuizioni. La realizzazione di forme di selezione, in pratica, viene lasciata ai diretti interessati che la compiono, in modo spesso inconscio, su loro stessi.

Spesso le domande di ammissione ai concorsi per le qualifiche dirigenziali sono molto inferiori rispetto al numero degli aventi diritto a dimostrazione che molti funzionari, anche se validi e preparati, si sono auto-selezionati ed esclusi dalla possibilità di avanzamento nella carriera.

I motivi ? Innumerevoli e di varia natura: scarsa motivazione, paura di non essere preparato, timore di dover cambiare ufficio e/o luogo di residenza, incertezza sulle proprie capacità direzionali, una certa forma di svogliatezza determinata da un lungo periodo di tempo senza una costante attività di studio, incapacità dell’Amministrazione di appartenenza di far sorgere nel funzionario un interesse alla cariera con il risultato di far orientare lo stesso verso altre possibilità d’impiego, non ultima la pratica del secondo lavoro.

Il risultato è che in tale situazione la Pubblica Amministrazione perde, spesso, l’opportunità di contare, a livello dirigenziale, su dipendenti con buone capacità direzionali e, contemporaneamente, costoro, tralasciando le residue motivazioni di carriera, si estraneano ulteriormente dalle logiche lavorative con conseguente caduta dei livelli qualitativi e quantitativi.

Tale carenza valutativa e formativa propone nella Pubblica Amministrazione anche il problema delle professionalità che vengono richieste ai dirigenti pubblici.

Venendo meno la figura del dirigente cui demandare unicamente un controllo di legittimità dell’azione amministrativa ed acquisendo maggiore importanza, in una Pubblica Amministrazione erogatrice di servizi, un dirigente dotato di una cultura gestionale e, in alcuni casi, specialistica, nasce l’esigenza di prefigurare, selezionare e formare figure dirigenziali differenziate.

In alcune aree particolari, come quella informatica, delle attività tecniche e di progettazione, della comunicazione e del marketing, che per la Pubblica Amministrazione stanno divenendo strategiche, non è più funzionale un dirigente di cultura prevalentemente giuridica e votato ad essere un “tuttologo”.

E’ questa, probabilmente, la causa per cui alcune attività della Pubblica Amministrazione, pur dotate di attrezzature e strutture moderne, non riescono a rendere, in termini di efficienza ed efficacia, in modo ottimale: la formazione e la cultura di chi deve gestirle non è “adeguata”.

Come già sottolineato non si tratta di un problema di capacità dei singoli; è una questione di “cultura” intesa in senso professionale su cui la Pubblica Amministrazione non ha incentrato la dovuta attenzione ritenendo necessaria, e privilegiando, solo una cultura “giuridica”.

In questo contesto risulta pregevole l’attività di formazione svolta dalla Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione nella conduzione dei corsi di formazione dirigenziale che nella loro progettazione evidenziano un taglio interdisciplinare certamente funzionale ad una nuova “cultura” gestionale.

Si crea tuttavia una sorta di contraddizione dal momento che le qualifiche dirigenziali possono essere conferite, come abbiamo visto in precedenza, anche mediante concorso speciale per esami che privilegia, per contro, conoscenze di tipo giuridico ed una cultura legittimistica.

Ciò comporta che, nonostante gli sforzi della Scuola, rimangono maggioritari i dirigenti di nuova nomina divenuti tali con la vecchia metodologia, per cui l’espandersi della nuova cultura “gestionale” risulta alquanto rallentata, per non dire vanificata.

Rimane comunque estremamente significativo l’apporto che la Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione da alla formazione di una parte dei nuovi dirigenti pubblici in termini di conoscenze e di metodologie applicate.

Innanzi tutto sono state inserite nei piani didattici discipline, patrimonio del settore privato, finalizzate ad un approccio sistematico dei problemi amministrativi e gestionali, in particolare delle risorse umane. Come gestione dei processi di apprendimento la Scuola ha optato per metodologie come “case study”, “role playng”, “simulazioni” ed esercitazioni in aula al fine di verificare durante il corso la rispondenza dei partecipanti alla somministrazione di categorie concettuali nuove contenenti diversi valori mediante cui ricercare più alte soglie di efficienza ed efficacia.

Particolarmente stimolante è, inoltre, lo stages che i partecipanti ai corsi di formazione dirigenziale devono condurre presso grandi aziende, pubbliche o private, al fine di analizzare alcuni aspetti organizzativi e gestionali e compararli con quelli in uso presso la Pubblica Amministrazione avanzando, nel contempo, proposte tese a migliorare l’efficenza della stessa.

Tale sforzo concettuale e propositivo, richiesto ai futuri dirigenti, oltre ad essere una sorta di novità nell’ambito pubblico, aiuterà probabilmente gli stessi nella loro attività dirigenziale mediante l’acquisizione di nuove metodologie organizzative e gestionali e, contemporaneamente, potrà facilitare una sorta di osmosi “culturale” tra il settore pubblico e quello privato facilitando, tra i due, anche l’instaurazione di un nuovo e più corretto sistema di comunicazione.

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5.0 – CONCLUSIONI

5.1 – Le due metodologie a confronto

Comparare due metodologie ha un senso se i sistemi, nel cui ambito operano, possono considerarsi simili dal punto di vista organizzativo. Una prima analisi dei sistemi “STET” e “Pubblica Amministrazione”, tendente a porre in luce alcune loro caratteristiche comuni è già stata effettuata nelle pagine precedenti, per cui è necessario completare quanto già detto al fine di poter correttamente verificare, mediante la comparazione delle metodologie di selezione e formazione della dirigenza adottate dalla STET e dalla Pubblica Amministrazione, la possibilità di apportare modifiche migliorative nell’ambito pubblico.

Una prima obiezione che può essere avanzata è che la STET e la Pubblica Amministrazione sono sistemi che perseguono finalità diverse e sono valutabili in base a differenti parametri, per cui una comparazione delle metodologie attuate al loro interno appare improponibile.

Il gruppo Stet, orientato verso una filosofia prettamente economica e privatistica, anche se in regime di monopolio parziale, nell’utilizzo dei fattori di produzione (finanziari, strumentali ed umani) considera i risultati di bilancio come indici della correttezza dell’azione gestionale e parametri indiscutibili del successo delle scelte strategiche.

La Pubblica Amministrazione, invece, orientata verso finalità pubbliche, valuta la propria efficienza in base al soddisfacimento dei bisogni della collettività ed è tenuta (art. 97 della Costituzione) ad adottare comportamenti e strutture che garantiscano il buon andamento ed il massimo della trasparenza e della imparzialità dell’azione amministrativa.

Ritengo, tuttavia, che anche con queste differenze sostanziali, che pongono i due sistemi quasi agli estremi opposti di una retta immaginaria su cui porre diverse strutture organizzative, sia possibile proporre una comporazione tenendo presente che ambedue i sistemi analizzati sono deputati alla produzione di beni e servizi e che solo in sede di bilancio annuale sono soggetti ad una valutazione secondo parametri differenti; per la STET si tratterà di una valutazione economica di profitti e perdite, per la Pubblica Amministrazione di una valutazione “politica” e sociale di come la stessa ha risposto ai bisogni della collettività.

Accettando tale impostazione e riconoscendo nella Pubblica Amministrazione compiti connessi con la fornitura ai cittadini di beni e servizi e la gestione dell’economia, prevalenti rispetto a quelli inerenti la mera tutela dei diritti, si può sottolineare come anche per essa,in sede di analisi consuntiva e di “bilancio” dell’attività delle strutture pubbliche, riveste particolare importanza per la collettività la valutazione del rapporto costi/benefici che ha caratterizzato l’azione pubblica.

Attualmente, tema dominante del dibattito sociale in Italia è l’enorme costo della Pubblica Amministrazione in rapporto ai servizi erogati che sono ritenuti inadeguati e qualitativamente scadenti.

L’attività della Pubblica Amministrazione, quindi, può essere valutata in termini di “costi” e di “redditività” dell’investimento effettuato dalla collettività se, ormai, per determinarne l’efficenza e l’efficacia si ricorre a categorie concettuali atte a rapportarne le risorse impiegate e i risultati conseguiti.

Un’altra obiezione che può essere avanzata inerisce i vincoli cui è soggetta la Pubblica Amministrazione rispetto ad una presunta libertà operativa che caratterizza il settore privato.

Anche in questo caso si deve sottolineare che Società o Gruppi finanziari, come la STET, pur se formalmente liberi da gabbie normative pari a quelle che imbrigliano l’attività della Pubblica Amministrazione, sono soggetti ad una serie di vincoli derivanti, da un lato, dalla legislazione civile e penale e, dall’altro, dai vincoli posti dalle esigenze di bilancio e dalle attese degli azionisti, siano essi pubblici o privati.

Tali considerazioni permettono quindi di ritenere percorribile una impostazione che considera confrontabili i sistemi STET e Pubblica Amministrazione in quanto rispondenti a logiche comuni, pur se operanti in settori e con finalità diverse; ciò permette, altresì, di operare una comparazione delle rispettive metodologie di selezione e formazione dei dirigenti.

Una prima differenza che potremmo definire “strategica” è quella relativa alla selezione della dirigenza.

Come abbiamo sottolineato in precedenza, agli inizi degli anni ’80 la STET ha scelto di selezionare all’interno delle proprie strutture i futuri dirigenti mediante percorsi ragionati di carriera e formazione che fossero orientati a valorizzare il “potenziale” delle proprie risorse umane.

Negli ultimi tempi, per contro, nell’ambito della Pubblica Amministrazione, e del Paese, è in corso un acceso dibattito su “dove” e su “come” reperire i futuri dirigenti pubblici. Da molti ambienti, interni ed esterni alle strutture pubbliche, si sollecita l’assunzione nella Pubblica Amministrazione di “managers” privati al fine di migliorarne l’efficenza e la funzionalità.

Questa tesi propende, quindi, per una strategia esattamente opposta a quella adottata dal Gruppo STET e, contemporaneamente, reputa implicitamente inadatta la metodologia di selezione e formazione adottata fin ad oggi dalla Pubblica Amministrazione nella gestione delle proprie risorse umane, non ritenendo realistica una spiegazione che consideri l’inefficienza delle strutture pubbliche come determinata da una inadeguatezza “genetica” dei propri dipendenti.

La naturale conclusione che si deve trarre è che le problematiche inerenti una maggiore efficienza delle prestazioni delle strutture pubbliche potranno trovare soluzione, in gran parte, mediante una modifica dei sistemi di gestione delle risorse umane privilegiando il momento della selezione e della formazione delle stesse e della dirigenza in particolare.

In questa ottica, alla corrispondenza formale riscontrata tra strutture formative del Gruppo STET e della Pubblica Amministrazione dovrà far riscontro, in ambito pubblico, l’adozione di una metodologia che abbia come finalità una reale valorizzazione delle potenzialità dei dipendenti e che sia funzionale alle scelte strategiche e organizzative che compiranno i “Vertici” delle Amministrazioni pubbliche.

Altra differenza di un certo rilievo, riscontrata nell’analisi precedente, riguarda la gestione complessiva della dirigenza, vista come segmento delle risorse umane del sistema.

Nell’ambito del Gruppo STET tale problematica è affrontata e gestita dalle singole aziende in collaborazione con la STET che, in qualità di “capofila” del gruppo, ha il compito di assicurare una uniformità nelle scelte strategiche e, conseguentemente, nella gestione delle risorse umane.

La gestione comune, che a livello di “Executives” e di “Vertici” diviene prevalente da parte della STET, tende ad assicurare un comune patrimonio culturale dei dirigenti del Gruppo che, pur salvaguardando le specificità di settore, garantisca un livello professionale e gestionale di eguale spessore a tutte le aziende.

Tale metodologia tende a garantire una costante assistenza della STET nelle scelte che le aziende operano nella valutazione delle potenzialità e delle performances dei futuri dirigenti e, contemporaneamente, ad assicurare una omogeneizzazione della cultura di base degli stessi somministrando loro percorsi formativi comuni.

Nella Pubblica Amministrazione non è dato riscontrare tale orientamento metodologico in quanto, come sottolineato in precedenza, i sistemi di selezione sono sostanzialmente meccanicistici e le sollecitazioni formative non fanno riferimento ad un unico modello organizzativo e ad una visione strategica comune, pur nel rispetto delle diverse funzioni istituzionali.

A tale proposito è utile sottolineare come il sistema gestionale delle risorse umane nell’ambito della Pubblica Amministrazione appare rovesciato rispetto a quello dettato dalle più recenti teorie di management ed in uso presso il Gruppo STET.

Queste teorie definiscono “formazione progettuale” un modello d’intervento che consenta di saldare concretamente intenti di trasformazione organizzativa e predisposizione delle risorse umane, sia per numero che per capacità professionali, correlando il tutto alla realizzazione di cambiamenti delle strategiche aziendali e/o di gruppo.

Si può parlare di formazione progettuale in due sensi fondamentali:

a) in quanto l’intervento formativo è parte integrante di un più generale progetto sia culturale che organizzativo;

b) in quanto tale intervento è finalizzato a produrre proposte operative da tradurre in progetti di miglioramento del funzionamento organizzativo aziendale e/o di gruppo.

La filosofia della missione strategica della formazione, condivisa nel Gruppo STET, risulta estranea alla Pubblica Amministrazione che, generalmente, attua la formazione come fatto formale e scaturente dall’osservanza delle normative.

A tale proposito appare evidente la discrasia esistente tra i messaggi formativi proposti dai corsi organizzati dalla Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione e la realtà della maggioranza delle Amministrazioni pubbliche.

Da parte della Scuola si tenta di diffondere, in modo eccellente anche se tra innumerevoli difficoltà, una cultura e delle tecniche di gestione di tipo manageriale che possano favorire, in una ottica di efficienza sostanziale, un processo innovativo nell’ambito delle strutture pubbliche.

Di contro gran parte delle Amministrazioni destinatarie dei funzionari e dei dirigenti che escono dai corsi sono ancora strutturate e gestite secondo i modelli organizzativi che si tenta di superare e che subordinano l’efficienza all’osservanza delle norme.

E’ proprio questo l’aspetto che denota un capovolgimento della metodologia formativa rispetto a quella adottata nella STET: nell’ambito della Pubblica Amministrazione si tenta di formare funzionari, direttivi e dirigenziali, che siano sensibili a processi di cambiamento delle strutture organizzative e gestionali e che possano favorire la nascita di una “masa critica” dotata di capacità di influenza e di auto-riforma strategica ed organizzativa di cui le strutture pubbliche non sembrano essere dotate.

La Scuola Superiore appare come attrice di un tipo di formazione che tende a introdurre sollecitazioni al cambiamento nell’ambito delle strategie e dei modelli organizzativi della Pubblica Amministrazione che, invece, in ambito privato sono i diretti “decisori” dei bisogni di apprendimento della intera struttura organizzativa.

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5.2 – PROPOSTE CONCLUSIVE

Da quanto esposto nelle pagine precedenti risulta evidente un diverso modo di affrontare il problema della selezione e formazione della dirigenza STET e della Pubblica Amministrazione.

A questo punto è necessario rispondere alla domanda principale da cui è scaturito il presente studio: “E’ possibile mutuare nell’ambito della Pubblica Amministrazione tecniche gestionali utilizzate in ambito privato e, in questo caso particolare, del Gruppo STET ?”.

Prima di passare a dare una risposta, che sarà comunque positiva, è necessario sottolineare che l’utilità di riconsiderare i sistemi di selezione e formazione della dirigenza pubblica scaturisce dalla necessità di modificare i modelli organizzativi e gestionali della Pubblica Amministrazione che, come abbiamo visto in precedenza, non riescono più a rispondere in modo adeguato alle sollecitazioni dei cittadini.

Tale esigenza, riconosciuta da vasti strati dell’opinione pubblica, incontra tuttavia diverse difficoltà e tarda ad attuarsi.

I fattori che determinano tale “inerzia organizzativa” sono stati identificati da Gianfranco Rebora, docente di Economia Aziendale nell’Università di Brescia, in due grandi gruppi:

  • i “fattori comportamentali” identificabili in una serie di azioni che gli individui ed i gruppi pongono in essere all’interno di una struttura organizzativa;
  • i “fattori sistemici” che rallentano, se non addirittura “bloccano”, progetti di ristrutturazione organizzativa agendo in modo indipendente dalle scelte comportamentali (consapevoli o inconsapevoli) degli individui e/o dei gruppi.

In un articolo pubblicato sulla rivista “Azienda Pubblica – Teorie e problemi di management” edita da Giuffrè Editore, n.1 del giugno 1988, Gianfranco Rebora individua in cinque distinte forme i “fattori comportamentali”:

a) “cognitivo” riferito agli schemi e agli orientamenti culturali che presiedono alla formazione (scolastica e “sul campo”) dei soggetti e a quella che definisce “socializzazione organizzativa”;

b) “organizzativo” identificato nelle soluzioni organizzative adottate dalla struttura, come linee gerarchiche e di responsabilizzazione, criteri di divisione dei compiti, meccanismi operativi in essere;

c) di “stile relazionale”, collegati quindi alle logiche e modalità di relazione interpersonale che predominano all’interno dell’organizzazione;

d) “politico”, dipendenti dagli interessi in gioco e dal perseguimento da parte dei vari soggetti di propri obiettivi, condizionati anche dall’interazione “politica” fra forze e gruppi organizzati all’interno e all’esterno dell’Amministrazione;

e) di “valori”, attinenti ai diversi significati di fondo che i vari attori attribuiscono a determinati fenomeni della vita organizzativa.

I “fattori sistemici” di inerzia organizzativa, per Rebora, si manifestano allorquando i tentativi di modifica delle strategie si trovano ostacolati da una limitata capacità della struttura organizzativa ( e quindi dei soggetti che la compongono) di adeguarsi alla nuova logica di funzionamento richiesta dal cambiamento, per cause strutturali e non riconducibili a scelte comportamentali dei soggetti interessati.

H.I. Ansoff (Implanting Strategic Management, 1984) individua alcune situazioni che determinano tale “inerzia organizzativa”:

– “sovraccarico strategico” che si determina quando le nuove strategie non sono accompagnate da un parallelo e proporzionale investimento in capacità manageriali. Il processo innovativo non trova, quindi, una guida affidabile e ne scaturiscono ritardi nell’attuazione, crescita incontrollata dei costi, parziali fallimenti e altre disfunzioni organizzative;

– “effetto di soffocamento della strategia da parte della routine”, riscontrabile nel progressivo abbandono dei tentativi di mutamento strategico ed organizzativo con conseguente mantenimento dei vecchi schemi, che si riscontra quando la responsabilità delle nuove strategie e dei vecchi schemi organizzativi viene concentrata presso gli stessi organi senza che vengano posti in essere precisi meccanismi atti a favorire il cambiamento;

– “divario tra risorse e capacità” che una modifica delle strategie richiederebbe.

Facilmente si constata una sproporzione tra le qualità professionali e manageriali che una determinata politica di cambiamento richiederebbe e quelle effettivamente disponibili nell’ambito della struttura organizzativa; tale divario presenta in genere rilevanti aspetti qualitativi oltre che quantitativi.

Le spinte al cambiamento, quindi, provenienti dall’ambiente esterno costituiscono per un sistema una fonte di energia potenziale che, a volte, non riesce a vincere l’inerzia comportamentale e sistemica.

“L’avvio di processi di cambiamento strategico e organizzativo – sostiene Rebora, parlando della Pubblica Amministrazione – non è quindi un fatto deterministicamente dipendente dalle condizioni ambientali e neppure dalla sola capacità di concepire e formulare obiettivi e strategie; l’energia potenziale che si genera nell’interazione fra amministrazione e ambiente trova uno sbocco razionale se incanalata, nell’ambito certo di una chiara “visione strategica”, dal contributo di attori e soggetti capaci di incidere, in virtù di loro particolari qualità o della loro stessa collocazione, sulle interazioni intersoggettive critiche per l’evoluzione del sistema aziendale.

L’esame delle esperienze di cambiamento – conclude Gianfranco Rebora – che hanno proceduto con successo almeno parziale, evidenzia quanto conti il ruolo degli attori, quali spazi si aprano alla soggettività e pone quindi la questione degli << agenti di cambiamento >>. Sempre l’esame dei casi suggerisce una tipologia dei possibili agenti del cambiamento orientata a mettere in evidenza i rispettivi connotati di tipo comportamentale e interattivo; anche se bisogna tener conto che gli aspetti di collocazione formale nell’organizzazione hanno particolare rilievo nel contesto istituzionale pubblico”.

Seguendo, quindi, il ragionamento di Rebora, peraltro condiviso ed attuato in ambito privato, risulta che per attuare una riforma strategica ed organizzativa è necessario predisporre la disponibilità di risorse umane idonee a porre in atto, concretamente, le linee programmatiche e gestionali.

Tale presupposto, inserito nell’ambito del dibattito sulla riforma della Pubblica Amministrazione, conduce direttamente a considerare come “strategica” tutta la problematica inerente la selezione e formazione della dirigenza che, necessariamente, deve essere un attore primario nel processo di cambiamento.

Alla luce di quanto fin quì esposto, possiamo riconsiderare le analisi effettuate sui sistemi di selezione e formazione della dirigenza, adottati nell’ambito del Gruppo Stet e della Pubblica Amministrazione, al fine di formulare alcune proposte di modifica.

In primo luogo si deve necessariamente sottolineare come la proposta di adottare, in ambito pubblico, metodologie e tecniche di gestione proprie del settore privato non significa “privatizzare” la Pubblica Amministrazione.

Probabilmente è questo lo scoglio “concettuale” più arduo da superare. Senza tale obiezione, spesso avanzata in modo specioso, sarebbe più agevole il processo di cambiamento che si tenta di avviare all’interno delle strutture pubbliche.

L’azione della Pubblica Amministrazione si caratterizza per i fini che persegue, non certo per i mezzi di cui è dotata e per le metodologie gestionali ed organizzative. Quelle attualmente in uso sono state definite in un contesto sociale ed economico ormai tramontato e, come sottolineato in precedenza, in relazione a “finalità” e “strategie” ormai non più attuali.

Senza procedere oltre su tali tematiche che, inevitabilmente, porterebbero la discussione su un piano prettamente politico, adottare un sistema di selezione e formazione dirigenziale simile a quello adottato in ambito STET presuppone, a monte, la definizione di strategie pubbliche estremamente precise e, parallelamente, l’adozione di filosofie gestionali ed organizzative simili a quelle adottate dal Gruppo Stet, in cui sia la struttura che gli obiettivi sono definiti in stretta relazione alle strategie che possono, e “devono”, cambiare in sintonia con l’ambiente esterno e con modalità e tempi estremamente concentrati.

Adottare tale orientamento, in ambito pubblico, significa procedere ad una massiccia delegificazione che privilegi, pur nell’ambito di un quadro di riferimento normativo generale, tecniche di gestione estremamente snelle, comprese quelle inerenti la contabilità, ed una capacità auto-organizzativa che non sia costretta a subire una miriade di controlli e autorizzazioni il cui risultato, di solito, è la perdita dell’attualità del progetto di ristrutturazione.

Acquisendo tale forma di mentalità e di filosofia gestionale sarà possibile, e probabilmente “necessario”, riformare i sistemi di gestione delle risorse umane e della dirigenza in particolare.

Tale “necessità” produrrà, come effetto naturale, la definizione di una figura di dirigente capace di sviluppare una cultura di gestione complessiva e una modellazione di “tecniche manageriali” applicabili a qualunque struttura pubblica, indipendentemente dalla natura del “prodotto” che tale Amministrazione è chiamata ad erogare.

Il Prof. Gianni Billia, Direttore Generale dell’Inps e maggiore promotore della legge 88/89 richiamata in precedenza, ha sostenuto, in un intervento ad un convegno sulla dirigenza pubblica, che ” la professione del dirigente è data da una somma di valori, di conoscenze che trascendono la singola azienda e costituiscono il patrimonio personale dello stesso, esportabile anche in altri ambiti produttivi. La dirigenza si legittima sempre meno in base ai <<gradi>> e all’autorità, ma sempre più in base alla leadership, cioè alla capacità di gestire risorse offrendo un valore aggiunto in termini di conoscenze e capacità personali. (…) E’ ancora diffusa, tuttavia, la convinzione che la Pubblica Amministrazione derivi la propria esistenza esclusivamente in forza della legge: è bene che questa mentalità venga presto modificata, in quanto il <<mito dei diritti acquisiti>> è destinato a tramontare. Ciò di cui dobbiamo convincerci, quali dirigenti pubblici, è che non possiamo godere di una legittimazione di <<autoconsistenza>> che nasce dalla legge, ma che la valenza del nostro ruolo si basa esclusivamente sulla efficienza dei servizi che forniamo ai cittadini i quali sono, in definitiva, i soggetti che decidono se la Pubblica Amministrazione deve continuare ad essere gestita secondo gli attuali sistemi o se non debba compiere, viceversa, il salto di qualità verso una gestione di tipo privatistico.”

L’autorevolezza del sostenitore di quanto appena riportato, che non a caso vanta precedenti esperienze professionali presso l’ENI e l’IRI di cui è parte il Gruppo Stet, e il successo che stanno ottenendo i modelli gestionali adottati presso l’Inps e l’Inail, destinatari della legge di riforma 88/89 che contiene principi simili a quelli in uso presso il settore privato, conferma la possibilità di poter esportare tali modelli nell’ambito dell’intera Pubblica Amministrazione.

Nell’ambito di questo scenario appare possibile, oltre che “necessario”, apportare al sistema vigente di selezione e formazione della dirigenza pubblica opportune modifiche che vadano nella direzione delineata analizzando le tecniche in uso presso la Stet.

In primo luogo si dovranno considerare in modo nuovo le metodologie di reclutamento delle risorse umane destinate ad occupare posizioni lavorative nell’area pre-dirigenziale. Tale processo non potrà concludersi con le prove concorsuali di assunzione, anche se effettuate tramite i corsi di reclutamento effettuati presso la Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione.

Sarà necessario progettare idonei percorsi di carriera che, integrati con metodologie di valutazione del potenziale ed un sistema premiante, si raccordino con un piano continuo di formazione che riesca a far sviluppare negli individui, oltre alle capacità professionali latenti, una cultura di sviluppo organizzativo che si integri con gli obiettivi delle politiche strategiche delle Amministrazioni.

Tale strategia di gestione delle risorse umane, finalizzata alla costituzione di un nucleo forte di “quadri” altamente professionalizzato, dovrà accompagnarsi ad una tempestiva pianificazione dei “rimpiazzi” delle posizioni dirigenziali (management reviews) in modo che con largo anticipo si possano prevedere le necessità organizzative delle Amministrazioni e sviluppare, di conseguenza, le potenzialità richieste mediante piani formativi personalizzati.

Ciò permetterà la costituzione di nucleo di risorse umane che, sviluppate per tempo, possa occupare le posizioni pre-dirigenziali ed essere pronta all’assunzione di responsabilità superiori senza ulteriori interventi formativi se non quelli corrispondenti ai successivi livelli strettamente collegati con le nuove posizioni ricoperte e con le necessità scaturenti da un naturale aggiornamento professionale.

Per quanto concerne più direttamente le problematiche connesse con l’area dirigenziale, presupposto per una nuova e più funzionale gestione delle strutture organizzative sarà il superamento della stretta correlazione, oggi esistente, tra il “grado” dirigenziale ricoperto e la “titolarietà” di un livello predefinito di responsabilità. E’ questo il primo nodo strutturale che annulla qualsiasi tentativo di una gestione delle risorse dirigenziali finalizzata alla efficienza ed efficacia delle Amministrazioni.

La legittimazione del dirigente, che gli assicuri un ruolo attivo all’interno della struttura organizzativa, dovrà derivare da quello “che fa” e non dal grado che ricopre. Tale diversa visione del ruolo dirigenziale, probabilmente, promuoverà una richiesta di formazione da parte degli interessati al fine di poter fondare su essa il proprio successo professionale che, attualmente, è in prevalenza ancorato a percorsi di carriera che privilegiano l’anzianità di servizio.

Un primo orientamento in tal senso è stato tentato con il disegno di legge 3464, di riforma della dirigenza, che aveva previsto, oltre ad un unico livello dirigenziale, l’introduzione dell’indennità di funzione di entità variabile e determinata in relazione alla valenza della struttura cui il dirigente è preposto.

Tale previsione, decaduta insieme al disegno di legge, è stata comunque in parte concretizzata (Indennità di funzione) dalla legge 88/89 e dagli Accordi Sindacali stipulati per il personale degli Enti Locali e degli Enti di Ricerca che hanno “contrattualizzato” anche il rapporto di lavoro dei dirigenti.

Mediante l’introduzione della “Indennità di Funzione” una parte consistente della retribuzione dei dirigenti diviene “variabile” e correlata alla preposizione di una determinata struttura organizzativa di cui, periodicamente, si valutano le prestazioni ed il grado di raggiungimento degli obiettivi assegnati alla stessa.

Tramite questo meccanismo si è introdotto, pur se nell’ambito di una ristretta parte della Pubblica Amministrazione, una sorta di “sistema premiante” simile a quello adottato dalla Stet.

Saranno da valutare, naturalmente, i risultati che tali nuove metodologie produrranno nel tempo; sarebbe comunque importante che nell’ambito pubblico si tenti di introdurre in modo generalizzato nuovi meccanismi di gestione delle risorse umane finalizzati al raggiungimento di nuove soglie di efficienza e di “qualità” dei servizi resi.

I risultati dipenderanno, comunque, in larga massima dal grado di “obiettività” e sofisticazione con cui saranno selezionati e “valutati” i dirigenti unitamente alla loro professionalità, che dovrà risultare funzionale alle strutture cui saranno preposti ed alla filosofia gestionale che sarà adottata.

Sarà quindi necessario predisporre una metodologia di “valutazione del potenziale” simile a quella adottata presso il Gruppo Stet che permetta un “monitoraggio” costante degli appartenenti ai ruoli dirigenziali e pre-dirigenziali finalizzato alla valorizzazione delle singole capacità mediante una formazione mirata ed un progressivo affidamento di maggiori responsabilità all’interno della struttura organizzativa.

Parimenti sarà necessario che nell’ambito della Pubblica Amministrazione si proceda alla definizione di tecniche di “pesatura” delle singole unità operative al fine di poter assegnare, per ognuna, un valore ponderato che determini le professionalità necessarie alla loro conduzione e, contemporaneamente, la relativa indennità di funzione da corrispondere al dirigente in proporzione agli obiettivi raggiunti ed indipendentemente dal grado ricoperto.

Anche in questo caso, riproponendo quanto esaminato trattando della Stet, si potranno delineare delle politiche retributive che dovranno tenere conto delle prestazioni dei singoli dirigenti, delle diverse professionalità e delle necessità strategiche ed organizzative delle singole Amministrazioni.

Naturalmente il processo delineato dovrà essere previsto e regolamentato all’interno di una normativa generale che, pur rispettando la necessaria trasparenza e obiettività della Pubblica Amministrazione, permetta una reale libertà operativa delle diverse Amministrazioni tale che ciascuna possa, in tempi ragionevoli, adeguare la propria organizzazione alle finalità strategiche delineate dagli organi statutari in relazione alle esigenze della collettività.

Quanto prefigurato necessita, altresì, l’introduzione, o se vogliamo la “re-introduzione”, nell’ambito della Pubblica Amministrazione di una cultura lavorativa che accetti il “controllo” e la “valutazione” come momenti di gestione del processo produttivo.

Tale nuova cultura dovrà affermare da un lato che anche all’interno delle strutture pubbliche è possibile “misurare” tutte le attività lavorative e, dall’altro, assicurare che i sistemi di misurazione e valutazione adottino metodologie orientate alla massima “obiettività”.

Da ultimo si vuole ulteriormente sottolineare come l’attività di formazione della Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione appare in parte vanificata dalla prevalenza, nell’ambito delle strutture pubbliche, dell’attuale contesto normativo e gestionale.

Aderendo alla tesi, prospettata in precedenza, secondo cui la Scuola curi la formazione di una “massa critica dirigenziale” fornita di una cultura gestionale di stampo manageriale, deputata ad introdurre nella Pubblica Amministrazione “fattori critici” di cambiamento, è necessario che per costoro si prevedano percorsi di carriera “differenziati” e l’affidamento di posti-funzione strategici all’interno delle singole Amministrazioni in modo di favorire ed incentivare un costante cambiamento della cultura gestionale e organizzativa.

Tale previsione si rende necessaria anche in considerazione del notevole costo e della durata del Corso-Concorso di formazione dirigenziale che sostanzialmente può essere paragonato ad un “corso master” svolto presso strutture universitarie o private.

Appare quindi insensato, terminato il corso, disperdere tale investimento, sia finanziario che culturale, impiegando i dirigenti usciti dalla Scuola in strutture “marginali” e di scarsa rilevanza strategica.

Sarebbe altresì utile prevedere, annualmente o semestralmente, brevi moduli di “richiamo” destinati ai dirigenti in parola e finalizzati, oltre ad un necessario aggiornamento professionale, ad un costante interscambio di esperienze tra gli stessi ed i responsabili della Scuola in modo da poter consentire un ulteriore arricchimento della metodologia didattica ed un suo costante dimensionamento sulle necessità operative delle strutture pubbliche.

 

Come già sottolineato in premessa, confrontare il sistema adottato dal Gruppo Stet nella selezione e formazione dei dirigenti con quello in vigore presso l’Enasarco poteva non risultare di immediata utilità in quanto quest’ultimo soggetto alla normativa più ampia prevista per gli Enti tabellati dalla legge 70/75 e, in tema di dirigenza, alla legislazione vigente per la maggior parte delle Amministrazioni pubbliche.

Tale confronto è apparso ancor più difficile alla luce della teoria sistemica, su cui si è incentrata l’intera trattazione. E’ comunque evidente, che l’analisi comparativa tra la realtà del Gruppo Stet e della Pubblica Amministrazione e le proposte di modifica delle metodologie gestionali in uso presso le Amministrazioni pubbliche e dell’attuale normativa in merito alla selezione e formazione della dirigenza, potranno, se adottate, influire anche nell’ambito dell’Enasarco.

Tale nuova cultura gestionale potrebbe rivelarsi di notevole utilità per l’Ente che attualmente si trova in una delicata fase di transizione determinata dall’esigenza di ridefinire le proprie competenze statutarie e la struttura organizzativa a seguito di una modifica della realtà, sia economica che giuridica, in cui operano gli Agenti e Rappresentanti di commercio per i quali l’Ente gestisce una forma di previdenza integrativa ed il Fondo di Indennità di Risoluzione Rapporto, oltre a curarne la formazione professionale ed altri tipi di prestazioni integrative di previdenza.

In qualità di Ente pubblico, gestore di “servizi” in favore di una determinata categoria produttrice, risulta particolarmente importante la ricerca di un elevato standard di efficienza ed efficacia nell’erogazione delle prestazioni che l’attuale disciplina legislativa, per quanto detto in precedenza, non agevola.

Si ritiene, quindi, che una modifica della legislazione in tema di metodologie gestionali e di selezione e formazione della dirigenza da introdurre nell’ambito della Pubblica Amministrazione, possa influire in modo diretto e determinante nei confronti dell’Enasarco che, per le ridotte dimensioni, potrebbe riscontrare, in tempi brevi, notevoli benefici gestionali e, addirittura, svolgere un ruolo sperimentale per metodologie e tecniche da esportare, successivamente, nell’ambito di altre realtà della Pubblica Amministrazione.

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Lettera a Brunetta

 

11 giugno 1991: è una data di per sé senza particolari significati che ci riporta lontano nel tempo (17 anni fa!) da cui ci separano anni luce in termini di progreso tecnologico, evoluzione sociale, economica e politica sia in Italia che nel mondo.

Quella data, tuttavia, mi ricorda il giorno in cui ho avuto l’occasione d’incontrarLa nel corso di un convegno che io stesso avevo organizzato per conto della Unione Italiana del Lavoro in qualità di responsabile nazionale della dirigenza pubblica.

Il titolo di quel convegno era “Da Burocrate a Manager” e il tema specifico della giornata era “Rapporto di lavoro e responsabilità dei dirigenti pubblici”. Tra gli interventi previsti, oltre a Lei, c’era Remo Gaspari che era l’allora Ministro della Funzione Pubblica e Sabino Cassese all’epoca responsabile di un progetto CNR sulla pubblica amministrazione.

Non so se queste poche righe Le hanno permesso di ricordare l’evento ed il contesto in cui si svolgeva il Convegno, contesto di grande attenzione verso la pubblica amministrazione e la sua dirigenza in pieno governo di centro sinistra (Andreotti/Amato) che avrebbe approvato il Decreto Legislativo 29 del 3 febbraio 1993 a suo tempo identificata e “contrabbandata” come legge di riforma della dirigenza pubblica.

La sua nomina a Ministro della Pubblica Amministrazionee l’Innovazione mi indotto a rileggere le trascrizioni di quel convegno ed in particolare il Suo intervento che ha avuto un taglio decisamente fuori dal coro comprese alcune proposte, riguardo alla pubblica amministrazione e alla dirigenza pubblica, che sicuramente possono considerarsi in linea con quanto da Lei rappresentato in questo periodo iniziale della Sua avventura governativa.

Un passaggio mi sembra particolarmente interessante, allora come oggi, di quanto da Lei detto:

“…..che fare quindi? Dicevo prima delegificare e non inserirsi ancora una volta nella vecchia strada del cambiare un sistema di leggi o di normative con altre leggi e normative. Non abbiamo le risorse (le risorse culturali, le risorse fisiche, le risorse del capitale umano) per avere una garanzia che una nuova norma, un nuovo sistema regolativo possa essere efficiente. Chi ce la dà? Nessuno!

Vale la pena di perdere uno, due, tre anni di dibattiti? Vale la pena di essere presi in giro con questi giochi?

Farò un esercizio, se mi consentite, insieme a voi. Facciamo finta che non ci sia alcuna norma in discussione, facciamo finta di avere le regole date. Come cambiare senza modificare le regole? Perché o eliminiamo totalmente le regole (questa è una opzione, quella referendaria) oppure manteniamo le regole. Io sono del tutto convinto che un miglioramento della qualità, di efficienza del sistema potrebbe avvenire tranquillamente con tutto il sistema di regole che è già vigente…..”

Ministro Brunetta, penso che a distanza di 17 anni quanto detto sia ancora crudelmente, tristemente, realmente vero anche se nel frattempo si sono succeduti governi di tutti i colori politici che hanno, ciascuno a modo suo, legiferato su tale materia e, cosa veramente meschina, addossato gran parte delle colpe dei mali italiani ad una fantomatica ed impalpabile “Pubblica Amministrazione” preda di fannulloni.

Come è possibile che da diversi decenni quasi tutti coloro che occupano posizioni di governo appena insediati sentono l’obbligo, quasi morale, di addossare parte delle colpe della disastrosa situazione nazionale ai dipendenti pubblici? Possiamo accettare, senza condividere, che tali critiche vengano dalla parte dei datori di lavoro e dalle organizzazioni dei cittadini e dei lavoratori ma che provengano proprio da coloro che sono i diretti gestori nonché responsabili del funzionamento della Pubblica Amministrazione appare veramente incredibile, nonché tipicamente italiano!

Qualcuno si è mai chiesto quale effetto demotivante e frustrante produce questa continua critica nei confronti dei dipendenti pubblici messi all’angolo dalla opinione pubblica mediante tutti gli strumenti mediatici disponibili; quale conseguenze hanno sull’efficienza della pubblica amministrazione simili campagne denigratorie nei confronti di circa 3.5 milioni di concittadini che, considerate le famiglie, rappresentano quasi il 14% della popolazione e che vengono considerati i “paria” dell’economia italiana?

E’ dal 1973 che lavoro nella Pubblica Amministrazione, sono figlio di dipendenti pubblici che già dovevano affrontare ai loro tempi questi pregiudizi, ho percorso la mia carriera esclusivamente all’interno della Pubblica Amministrazione passando per la Scuola Superiore di Caserta (Corso- Concorso dirigenziale) e operando nell’ambito di diversi enti pubblici. Mi considero un “Civil Servant”.

Io, come molti altri pubblici dipendenti, sopportiamo da sempre, a volte con rassegnazione, tutto ciò che si dice di noi e ci chiediamo continuamente: finirà mai questa “persecuzione”? Perché di questo si tratta.

Sono nato e attualmente lavoro a Roma ma risiedo in una città del nord! A volte cerco di evitare di dire che lavoro nella pubblica amministrazione per non dover iniziare un lungo e defaticante dibattito sulle inefficienze, i fannulloni, i costi della Pubblica Amministrazione e così via….magari con chi non brilla in fatto di etica morale e di senso civico.

Visti i risultati che negli ultimi decenni hanno conseguito su questo argomento i ministri della Funzione Pubblica o, come attualmente denominato, della Pubblica Amministrazione e Innovazione che l’hanno preceduta viene da ritenere che evidentemente la strada percorsa non è stata la più idonea oppure che si è sbagliato l’obiettivo della riforma. Eppure i nomi dei precedenti ministri sono stati, in alcuni casi, di alto livello peraltro universalmente riconosciuto: tre per tutti Massimo Severo Giannini, Sabino Cassese e Franco Bassanini.

Per focalizzare ancora meglio il mio pensiero vorrei evidenziare un altro passaggio del suo intervento al convegno dell’11 giugno 2008:

 “….lo ripropongo, perché non si reagisce da un punto di vista sindacale, ma non solo sindacale, ai criteri, alle modalità, alla qualità e alla quantità delle nomine dei dirigenti generali effettuate dal Consiglio dei Ministri. Io ho proposto a suo tempo una ricerca, che è quella di prendere gli atti che sono pubblici della Presidenza del Consiglio dei Ministri, individuare tutti i dirigenti generali nominati, verificarne i curricula, pubblicare i curricula e operare di conseguenza. Ne nomineranno centinaia all’anno probabilmente, forse anche meno, bene si prendano gli ultimi cinque anni, nomi e cognomi, ministri e proponenti, curricula……. Partiamo dalla testa, il pesce puzza dalla testa, partiamo da lì. Io alcune esperienze le ho avute, non dico che tutti i dirigenti generali non fossero senza requisiti, io credo che il 90% fosse senza requisiti. La legge è chiara, anche se generica ma è chiara…”

Ministro Brunetta è ancora convinto, se non in tutto, almeno in parte di quanto affermato 17 anni fa? Sarebbe un grosso sollievo, non solo per me, se la risposta fosse affermativa.

Sarà ormai tempo, ritengo, di mettere fine a questa annosa discussione sull’efficienza della pubblica amministrazione e dei suoi dipendenti ma, se mi consente, sarà necessario anche cambiare l’approccio, proprio secondo quanto indicato da Lei 17 anni fa!

Sono un dirigente pubblico ma non esito a sostenere che le prime mosse da fare sono verso la classe dirigenziale, verso i metodi di selezione e di progressione nella carriera, verso la definizione di un concreto, obiettivo e reale sistema di valutazione delle professionalità e delle prestazioni.

D’accordo su quanto da Lei proposto circa la pubblicazione dei curricula dei dirigenti generali nominati nell’ultimo quinquennio, ma accompagnata dalle valutazioni che hanno giustificato tali incarichi: potremo avere una ulteriore, agghiacciante prova della creatività italica!

Ma a parte tale “esercizio” speculativo ritengo necessario, e spero che Lei condivida ancora tale impostazione, partire ..” dalla testa, il pesce puzza dalla testa, partiamo da lì.” avviando immediatamente una rivisitazione dei metodi di gestione delle carriere dei dirigenti di 1a e 2a fascia impostando, oseri dire “imponendo”, un sistema di valutazione che lasci ridotti spazi di valutazione soggettiva a chicchessia e privilegi professionalità, competenze e performances documentate oltre che degne di essere prese in considerazione.

Se, come a suo tempo auspicato, si vuole far transitare la dirigenza pubblica da uno status di “burocrate” ad una identità di tipo “manageriale” che sia, tra l’altro, capace di identificarsi e cautelarsi all’interno di una categoria professionale sarà utile approntare una serie di strumenti legislativi e culturali che delineino una figura di dirigente pubblico di stampo europeo geloso della propria autonomia e fiero della sua professionalità.

Ciò potrà permettere che tutta la dirigenza pubblica italiana si affranchi una volta per tutte da una sorta di necessità di “apparentamento” a gruppi di pressione e/o lobby che da sempre condizionano e determinano all’interno della pubblica amministrazione comportamenti, scelte e normative, processi produttivi, modelli e progressioni di carriera.

Ritengo che su tale prospettiva di lavoro gran parte della dirigenza pubblica italiana sarebbe al suo fianco.

Tale scenario metterebbe fine a quel triste e umiliante pellegrinaggio di parte della dirigenza pubblica verso le corti dei “punti di riferimento” del momento che, utilizzando il loro transitorio potere, ne determinano una sorta di sudditanza psicologica mediante promesse e richieste di “fidelizzazione” che mal si attagliano ad una funzione dirigenziale al servizio del paese.

Sarebbe anche un utile strumento per mettere in grado i dirigenti di garantire efficienza ed efficacia delle strutture pubbliche, invitando a partecipare attivamente alla gestione della cosa pubblica o, altrimenti, a lasciare il posto di lavoro ad altri, quei “fannulloni”, a Lei tanto cari ma che quasi sempre risultano “intoccabili” essendo espressioni, ed in quanto tali sotto tutela, di determinati gruppi di varia estrazione.

Qualche tempo fa l’AD di Fiat Sergio Marchionne, persona certamente da stimare e rispettare per ciò che sta realizzando, ha tenuto una Lectio Magistralis al Politecnico di Torino in occasione del conferimento della laurea Honoris Causa. Nel corso del suo intervento ha citato il contenuto di una lettera inviata ai membri del Comitato di Gestione di Fiat Group Automobiles per ringraziali del lavoro fatto nei due anni precedenti.

Uno dei passaggi che più mi ha colpito è quello che, indicando nella cultura di un gruppo la vera essenza della vita sia dell’azienda in cui opera che del gruppo stesso, cita un aspetto della cultura Zulù;

“… tra gli indigeni dell’africa subsahariana è diffuso lo spirito “ubuntu”. Questa parola fa parte di una frase più lunga, “umuntu ngumuntu nagabantu”, che tradotto letteralmente dallo Zulu vuol dire “una persona è una persona grazie agli altri”. Quando tu ti muovi in questo ambiente, la tua identità, quello che sei come persona, deriva dal fatto che sei visto e riconosciuto come una persona dagli altri. Questo si riflette nel modo in cui le persone si salutano. L’equivalente di “salve” è sawubona che letteralmente significa “ti vedo”. La risposta è sikhoma, “sono quì”.

Quello che è importante nello scambio di saluti è che non esisti fino a quando non sei riconosciuto….”

Se dovessimo adottare tale filosofia come potranno essere riconosciuti dal resto dei cittadini i dipendenti pubblici (14% della popolazione) se si continua a denigrarli con minacce di licenziamento o di altre azioni repressive senza avviare una opera di rifondazione della loro immagine, di riconoscimento reale della loro professionalità e della lealtà che tanti dipendenti pubblici dedicano al proprio lavoro con spirito di servizio verso lo stato e la cittadinanza?

Ritengo che una vera riforma della pubblica amministrazione non possa prescindere dal ridare al dipendente pubblico lo “spirito ubuntu” che Marchionne è riuscito a far rinascere tra i collaboratori di Fiat Automobili, con i risultati che tutti conosciamo.

Utopia? Non credo Signor Ministro. Serve solo una sana coerenza tra dichiarazioni e fatti concreti evitando di inquadrare nel mirino falsi e populisti obiettivi ben sapendo che il vero bersaglio da colpire, per il bene dello stato, è un altro.

Nel dichiarami a sua disposizione nel caso gradisse approfondire ulteriormente il mio pensiero, colgo l’occasione per augurarle un proficuo lavoro.

Con cordialità

Francesco Naviglio